Rosa Pierno su La gioia è un turbine di quiete di Lorenzo Gobbi, ATì Editore, 2014

La fitta, irrinunciabile conversazione, istituita dalla voce di Lorenzo Gobbi, nel suo La gioia è un turbine di quiete è rivolta a più interlocutori: che siano Layla, un amico o Dio, non importa quanto la messa a punto di una parola polimorfica e metamorfica, poiché se le poesie iniziano col nominare un interlocutore, finiscono – e nel passaggio si fanno figure, ritornano suoni, si materializzano si desostanziano – col parlare anche a tutti gli altri, pubblico compreso. La parola, in questo processo di allargamento della platea, se in tal guisa si diparte da una situazione confidenziale, spesso generata da semplici osservazioni, quali possono essere la visione di steli d’erba o di un volo di rondini, tende a coinvolgere aspetti più generali, fino ad assumere una valenza che tende all’universale: “Testimoniano per me / le tue promesse – la sostanza / d’ogni cosa è questa Pasqua / questo mare aperto, questi / fiori di bianchissima speranza”. Se le domande sono rivolte all’Altissimo, il tessuto che le sostiene è nella vita, nel contatto delle mani, nel sostegno degli sguardi, nel profumo dei fiori. La delicatezza con cui Lorenzo Gobbi rilancia la posta non deve far credere a una sorta di flebile posizione, poiché forte e tenace è la volontà di perseguire il cammino poetico ed esistenziale. La ricerca ha come scopo l’obiettivo di meglio conoscere per meglio abbattere i limiti tra il sé e l’altro, tra il corporeo, il mentale e lo spirituale, tra ciò che appare e la sua essenza. La natura si configura come un al di qua che simboleggia l’al di là. Nella pace avvertita nella fertile pianura estiva, “questa pace, là: nell’alto, / negli eccelsi luoghi dove tutto / è un’opera di vita”. Eppure, non è colloquio che procuri pace, se ne sente il rovello, lo scavo inesausto, preghiera recitata senza sosta, quasi supplica, di cui tanta letteratura mistica ci ha mostrato la difficoltosa registrazione. Il ruolo della fede s’individua nel porsi ogni giorno domande, anche sul nome di dio, come avviene nella riflessione ebraica: “io vorrei di lui, non so / da dove scenda il Nome”. I misteri rimangono misteri e la morte, il dolore, lo scorrere inesorabile del tempo, intessono i dialoghi, che vedono già solo nel loro istituirsi la somiglianza di ogni cosa con ogni cosa, disegno unitario che se la poesia non può esaurire, può però movimentare.