Marco Furia su Le ceneri di Adriano di Maurizio Solimine

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Il tempo del sempre

All’inizio di “Le ceneri di Adriano”, articolato ma agile poemetto di Maurizio Solimine, si leggono i versi:

“d’Adriano accennano e numi

delle fronde stordiscono l’argilla
della campagna. È l’ora che assorta”.

L’efficace immagine centrale, quella delle “fronde” che “stordiscono l’argilla”, è come compresa tra due pronunce che ne delimitano l’aspetto linguistico e, vorrei dire, narrativo: tale andamento poetico, che procede per raffigurazioni collegate secondo una grammatica del racconto, è proprio di una versificazione che nel richiamo ai poemi classici trova la sua ragione di essere oggi, all’inizio del XXI secolo.

L’antico non diventa più moderno, ma attuale, poiché il ricordo è presenza che si mostra e persiste.

Due versi, a questo proposito, paiono significativi:

“a vincere l’abisso sulle membra
sparse nei mille secoli a venire”.

La poesia vince l’abisso del tempo?
Direi, piuttosto, che ne attraversa, noncurante, le trame.

Da qui, un tono che ha, nello stesso tempo, il sapore di allora e di ora, consapevole di esserci stato e di esserci.

Sorprendente ed enigmatico è dunque questo componimento che sembra raccogliere, con naturalezza, quello che in poesia è stato fatto da più di duemila anni a questa parte.

D’altronde

“il mondo passa, quale crudo nome
è quello del presagio che non torna?”.

La predizione che “non torna” ha un nome “crudo”, quasi l’incuranza del tempo nei confronti delle azioni e dei pensieri umani fosse crudele e non del tutto naturale, ovvia. Viene, perciò, da chiedersi: la sabbia che scorre nella clessidra è del tutto estranea alle nostre vicende? Non è essa stessa una nostra invenzione?

Abbiamo dunque inventato qualcosa che non tiene conto di noi?

Domanda sottesa a un intenso poemetto la cui chiara leggibilità fa emergere in maniera implicita, ma non nascosta, un misterioso quid che riguarda tanti aspetti della nostra vita.

Conoscere, talvolta, è prendere atto di un enigma senza tentare di risolverlo: il nostro poeta lo sa bene.