Davide Campi su Testa rasata di Maddalena Capalbi, Moretti & Vitali, 2015

La poesia di Maddalena Capalbi parla lucidamente e sapientemente di violenza.

Si tratta di una violenza a prescindere, storicamente documentata, ingiustificabile, con un unico e inevitabile bersaglio. In essa non c’è niente di spirituale o teoricamente collocabile; è solo cieca e fisica. È contro il corpo della donna, e vi si accanisce fino al più definitivo epilogo: “…per questo hai abbracciato/i seni con rabbia/e pazzo d’amore/li hai riempiti di fori.”.

Ogni poesia è rappresentazione e narrazione di una storia e di un personaggio, svelando ognuna una diversa declinazione della stessa ingiuria.

La lingua che la svela ha sintassi essenziale: “…La bambina si difende dal terrore di essere snidata…”, ritmi a volte incalzanti: “Non serve la croce che ciondola/per leggere i desideri volgari”, ma più spesso distesi e musicali, a dispetto della crudezza delle parole: “Aveva le mani nel fango/e i capelli attorcigliati,/ancora vestita…”.

Ma l’abilità poetica della Capalbi si dimostra soprattutto nella capacità di usare e gestire un lessico necessariamente molto duro e aspro mantenendo nei versi una potente ed evocativa coerenza sonora.