Rosa Pierno su Gamete di Osvaldo Coluccino, Coup d’idée, 2014

Leggiamo la prima sezione della silloge Gamete, intitolata Eliaco, come se fossimo immessi, dalla voce autoriale di Osvaldo Coluccino, nell’atmosfera dei quadri di Poussin. Il lessico ricercato, aulico, introduce in un’atmosfera rarefatta, dove la particolare consistenza della luce, dorata e senza tempo, sembra essere il personaggio principale e i convocati - personaggi mitici - paiono avere la medesima aerea consistenza: “Bevuti in un soffio, di parca reale / Fattezza, al lago tranquillo velati, / Fili opimi al limitare del bianco.” Sonore reminescenze, le definiremmo, visioni suscitate dal registro linguistico anacronistico (dove anacronistico ha necessariamente funzione strumentale) atte a dipingere una scena, a creare un’ambientazione. A partire da questo evocativo fondale, si può risiedere atemporalmente sulle due opposte sponde di un medesimo fiume, e vivere nella cultura, riattualizzandone le opere: si può vivere, dunque, in un’altra epoca, farla propria. Nella sezione che dà il nome al libro, la narrazione sembra avere uno svolgimento solo al fine di ottenere un immoto quadro. Scrivere come se si dipingesse, scrivere per dipingere, in realtà: “La nave è assente ma le spume / Più ardue paiono di gemma”. Tuttavia, con un gusto particolare: quello che scorge nelle analogie, quasi una prova dell’identità comune: “La salvia si conosce nel corallo. Sposalizio”. Quale sarebbe, infatti, il discrimine? La soglia che consenta di affermare: qui c’è una cesura, la differenza tra mitico e reale. Oppure che consenta di chiedersi: vivo in quest’epoca? Se la propria interiorità può assumere persino cangianti forme mitiche, è possibile! E l’autore trascina con sé, inevitabilmente, il capovolgimento come figura principe a cui sottoporre il senso per attivare l’intero arco semantico: “È un’apparizione strana, di me stesso, qui / Più che in altre balde epoche, direi / Se non fosse improprio, capovolto”. In tal maniera, l’io appare immerso in una congerie d’immagini classiche e rinascimentali, in cui alcune parole, nel flusso testuale rullante, appaiono come intoppi temporali: “Slancio di cui la famiglia si fregiava / Fu scolato umore a non fargliene fregare. O acque mute, ove l’abito da eroe / Che lo tramutò in subacqueo, erodeste?”. Così forse non crediamo all’uso dei simboli profusi nel testo: la torre, il leone, la fenice, le ali, la coppa, la nave, il vento. Non crediamo siano da decifrare, ma lemmi che al pari di navicelle, ci possano dislocare altrove, da cui lasciarsi trasportare.