Prima pagina: Adam Vaccaro, "Crinali e quesiti", saggio sulla ricerca epistemologica di Gio Ferri

CRINALI E QUESITI

Confronti e notazioni intorno alla ricerca epistemologica di Gio Ferri

di

Adam Vaccaro

Premessa

Lo scritto che segue è frutto degli scambi avuti nei decenni con l’amico fraterno Gio Ferri. Un carteggio di riflessioni teoriche, collaterali ai saggi scritti da entrambi. È un omaggio sollecitato anche da varie richieste di una mia testimonianza dedicata alla eredità culturale di Gio. Richieste che mi hanno spinto a riprendere le carte suddette e a trarne un testo sintetico, che potesse far capire la serie di stimoli derivanti dalle ricerche straordinarie della sua La ragione poetica. Offrire e far conoscere il confronto teorico, appassionato, consonante e a tratti divergente, avuto su alcuni nodi fondanti la sua Ragione e quelli della mia Adiacenza, credo sia il miglior modo di sottolineare il suo valore e la sua memoria.

Gio Ferri è stato per me un compagno di viaggio umano e culturale insostituibile, dentro e fuori Milanocosa, in un arco di circa quattro decenni.

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Risulta evidente quanto la ricerca di Gio Ferri possa interessare l’approfondimento delle analisi da me condotte nei termini dell’Adiacenza. L’impostazione e il percorso sono largamente coincidenti, fino perlomeno all’individuazione del nodo complesso dell’operatività mentale, intesa da me come software operativo del definito (da Rita Levi Montalcini) cervello bagnato, quindi di tutto il corpo.

Ogni specialista tende a totalizzare il proprio mezzo e chi scrive non fa eccezione; un esempio è fornito da una citazione (La ragione poetica, in seguito RP, p.39) di J. Kristeva, la quale dice: “tutte le complessità dell’amore derivano dal fatto che il linguaggio ci mette radici”. Da tale frase appare scontato che l’oggetto è il linguaggio e non i linguaggi, sia come diverse modalità mentali di rapportarsi alle lingue, sia come altri linguaggi (da quello gestuale a quelli dei singoli sensi, ecc.); tutti linguaggi operati dalla mente, quale universo operatore (luogo della possibilità di “una verità di comunione universale”, RP, p.115) di tutte le funzioni del corpo.

L’operatività mentale multiforme e globale così intesa, va dunque dal pre al post di ogni lingua, in un circuito di scambi dove è impossibile individuare inizio e fine, né separatezze o dicotomie (inventate dal platonismus perennis e dai dogmatismi del pensiero religioso o scientista). La mia ricerca si ferma e si sviluppa in tale nodo, ritenendolo già ai limiti dell’impossibile per la sua complessità. Da questa cerco nell’interminato e interminabile intreccio di lingue del testo poetico, tracce e forme della tensione adiacente tra le varie aree della mappa mentale (spazio né uni né tri, ma polidimensionato, al pari degli universi esterni), di un Soggetto Scrivente (SS) quali tracce e forme per sentire, assorbire e metabolizzare l’interminabilità del Tutto.

Rispetto all’adiacenza mentale da me cercata (e considerata quale luogo di frontiera per collegarsi col Resto), l’adiacenza che tendo a qualificare biologica di Gio Ferri, guarda il testo come organismo biologico per cercarvi “analogie tra la codificazione genetica vitale e la norma biologico-scritturale (semantico-retorica)” (RP, p.194), micro e macro forme testuali (o genotesti) che si riproducono seguendo le stesse leggi della riproduzione cellulare o della doppia elica del DNA, seguendo in definitiva gli stessi meccanismi della incessante riproduzione vitale. Non so dire quanto la mia ricerca possa fornire elementi utili a quella di Gio Ferri, che va al di là del crinale mentale per coinvolgere il versante fisico, neuronale e biologico. Questo può comportare alcune differenze o varianze.

Una di queste, è per es., che L’adiacenza mentale guarda al testo poetico come organismo nato dalla tensione adiacente tra le varie aree mentali, arrivando persino a poterlo considerare, nel suo complesso, metafora di tale tensione. L’adiacenza biologica di Gio Ferri non lo consente, perché alla circolarità biologica si sovrappone un salto che, come vedremo, colloca il testo (poetico) quale sovra-sistema del Tutto. È un salto che genera in me riserve, per l’alone di ideologia del testo che può comportare. Rimango tuttavia fortemente stimolato da tali differenze; interessato a fruire di tutti i loro possibili apporti.

Le analisi innovative si trovano ad affrontare (anche) problemi terminologici. Per quel che mi riguarda non sono riuscito ad es. (nelle ricerche dell’Adiacenza), a trovare di meglio che utilizzare simbologie tratte dalla psicoanalisi, pur riferendomi all’operatività mentale. Mano a mano che ci siamo addentrati nella ricerca di Gio Ferri, ne abbiamo misurato la rilevanza e lo spessore che, a mio parere, la qualifica tra le poche realmente nuove degli ultimi decenni, capaci di proporre un’uscita dal circuito soffocante e illusorio delle analisi concluse nel solo ambito linguistico.

L’approccio nuovo, ambizioso e interdisciplinare dell’adiacenza biologica di Ferri non può non coinvolgere molti crinali, che come abbiamo visto incontrano problemi anche terminologici (che, è noto, in genere vanno al di là della terminologia), guardandoli ovviamente dal punto di vista della mia ricerca di una adiacenza mentale.

Tra questi, ce n’è uno che almeno per me è fonte – come accennato – di riserve e domande: è il nucleo costituito dalla serie di definizioni incrociate che ruotano intorno al concetto di sovra-forma o forma delle forme della poesia; intorno cioè al crinale costituito dal passaggio dalla circolarità e dal materialismo biologico (che a me non pone alcun quesito) alla meta-fisica della poesia, che invece sollecita quesiti per l’alone di ideologia del testo che può condurre – in particolare verso i tanti adepti di una visione sacrale, “metafisica…e spirituale” (Leopardi) della “facultà poetica” (G. B. Vico).

Partiamo da una serie di ripetute affermazioni rintracciabili ne La ragione poetica: “la vita è cosa ed evento” (p.60); Tutto è materia e forma della materia, e materia della forma” (p.19); La poesia è forma e al tempo stesso cosa (intesa come sensitivo grumo energetico), per cui “non si può cogliere la poesia fuori dal “generale” materialismo della vita” (p.51); inoltre, per “il fatto (fondamentale e specifico) di essere spazio nello spazio, la poesia ha tutto il diritto di porsi come oggetto spaziale sensitivo e plastico” (p.31). Tutte affermazioni da me totalmente condivise. I quesiti possono nascere dal transito (o salto) nelle seguenti altre: “Ma la poesia come cosa può essere solo una sovra-cosa, una cosa delle cose…sovra-sistema cosale” (p.49)…meta-sistema reale” (p.48); “nel discorso la parola-segno rimanda a un significato altro. Nella poesia, invece, la parola rimanda solo a se stessa (p.30); per cui se “la vita è cosa ed evento. La poesia è il vertice puntiforme di quella cosa e di quell’evento. La vita è fisica. La poesia è, materialisticamente, meta-fisica” (p.60); La poesia è forma delle forme.

Sono affermazioni implicanti una forma di assoluto che tende a raggiungere un nonluogo, divino ed esterno agli enne possibili universi, punta di un crinale, fonte e lievito per me di vitali domande. Perché sono affermazioni che potrebbero in buona parte essere fatte per mille altre cose, animate e no.

La forma delle forme non conduce inevitabilmente alla forma di Dio e non comporta una questione di fede? Inoltre, se l’universo è multiforme, perché la forma delle forme è la poesia, e non (anche) la musica, o la luce, o l’uovo, l’acqua, il mare, il fuoco, l’eros, il DNA, la cellula, la conchiglia, la lumaca, il serpente, l’elefante, perfino il maiale, la gallina…e, scendendo a forme inanimate (ma se la materia è energia…), i cristalli, la sfera, i buchi neri…Non possono ognuna di esse, sedere come forma delle forme sul trono di Dio?

Non possono. A ognuna di queste bellissime e uniche forme manca qualcosa di essenziale per essere la forma delle forme. Lo sappiamo (credo) molto bene. Manca il pensiero, il pensiero che pensa se stesso. Non può esserci la forma delle forme senza il pensiero che pensa se stesso: l’energia al lavoro che è la fonte dell’estetica (parafrasando Schopenhauer). Non bastano i ritmi, non basta la musica, i giochi e l’eros.

Forse. Ma non c’è in questa pretesa una forma di demoniaco manniano, sempre oscillante tra il furore di una costruzione perfetta e una distruzione totale? Se le nuove scienze hanno definitivamente smontato ogni possibilità di affermazione dogmatica del pensiero e della scienza precedenti, la negazione di ogni possibilità di assoluto non ci fa rientrare in esso (ho sempre ritenuto fosse questa la debolezza del pensiero debole; ricordo di aver pubblicamente posto il quesito a Gianni Vattimo, ricevendone la disarmata confessione di “non averci ancora pensato”), non è un altro modo di nominare Dio?

Forse. Eppure può essere un modo di nominare Dio senza l’ideologia – o almeno più leggeri di ideologia. Che è forse il dio più resistente sul trono.

Cercando allora il perché certe punte mi frenano così…irrefrenabilmente, dovrei forse ricollegarmi all’esperienza generazionale di troppe ebbrezze ideologiche. Che sono le nemiche irriducibili del Sé e di suoi possibili momenti di unità adiacente, alias poesia: “nella comunione, con sé…con l’altro” (RP, p.38). Forse per questo il quesito resiste: al posto del “Dio tomistico” (RP, p.43) dantesco, e dell’ipotesi della sua “creazione estroversa e finalizzata”, non ci ritroviamo a veder volare – sul disegno, pur materialistico, di una poesia sovra-cosa meta-fisica – un dio-poesia con la sua “creazione introversa e gratuita” (ibid.)? Sia pure in bilico, ma resistente sul “vertice puntiforme” (RP, p.60) di una materialità meta-fisica (dechirichiano segno-cosa che riesce a rimanere autonomo rispetto alle varie modalità di linguaggio) svanito in una metafisica materialistica (in cui la parola-cosa ritorna dominata dall’astrattismo e dalla metaforizzazione delle Mod-Io)?

Stiamo parlando beninteso del disegno (o visione di idee) e non del corpo di una poesia, che o è, e allora è materialisticamente vivo; o non è, e allora è flatulenza più o meno maleodorante.

Un altro crinale toccato ripetutamente (ossessivamente, ma le passioni vere devono essere ossessive) dall’Adiacenza biologica di G. Ferri è quello dell’utilità/inutilità della poesia: “la poesia è l’evento non finalizzato e inutile per eccellenza” (RP, p.39). Come opera su tale crinale l’incrocio tra la mia Adiacenza mentale e la relatività delle scienze moderne?

Il massimo di utilità per una parte (di sé) è il massimo di inutilità per la totalità. Al contrario il massimo di utilità per la totalità del Sé, è il massimo di inutilità per la parte prammatica, che deve fare i conti (in senso letterale) con ciò che impone l’altro-da-sé che storicamente c’è.

Quindi, se l’utilità prammatica coincide con l’alienazione rispetto alla propria totalità, l’utilità di quest’ultima coincide con tutto ciò che fa vivere momenti di unità della propria totalità; momenti assolutamente necessari e utili all’autopoiesi, quali momenti di comunione, scambio energetico tra le varie aree mentali, rinnovamento e sorta di manutenzione attiva della propria identità. Momenti, come dire, di igiene mentale, rientranti in un universo di utilità antimaterico, rispetto a quello dell’utilità alienata e prammatica. Quanto più questa tende ad assorbire spazi crescenti di tempo mentale, tanto più cresce il bisogno di una prassi utile per-sé (per la propria totalità e ‘sostanza’).

La poesia è cioè, finalmente, una possibilità (fortunatamente non la sola!) dell’esperienza di fusione tra le varie aree mentali dell’identità, rispetto alla prevalente (utilitaristica) esperienza di divisione tra loro, prodotta dalla “prassi assorbente della quotidianità” (RP, p.43).

Da parte mia c’è dunque una visione in termini relativi dei due contrapposti concetti di utilità/inutilità, che le ripetute affermazioni assolute di inutilità sembrano escludere. Affermazioni peraltro contraddittorie con tutto l’impianto relativistico del pensiero neo-scientista di Gio Ferri. Che infatti aggiunge, sempre riguardo alla poesia: “per (corsivo mio) rappresentarsi comunque ed essere comunque recepita” (RP, pp.43-44). Una specificazione che dice implicitamente questo fine per-sé, ovviamente opposto a quello della “comunicazione retorica” (RP, p.43). Che dunque dice che, in una circolarità biologica di ogni soggetto e oggetto (compreso l’”oggetto poetico come sistema vivente”, RP, p.45), non può non essere immediatamente e intimamente contraddittoria ogni attribuzione di autosufficienza, persino del Tutto (dunque anche di Dio, di cui con ciò viene negata in sostanza…la sostanza) e di ogni forma che voglia presentificarlo.

Un ulteriore crinale che mi sollecita quesiti e creative differenziazioni è quello che riguarda la semanticità/asemanticità (vedi, in particolare, RP, pp.35-36). Per l’Adiacenza la poesia è, in quanto tensione (beninteso se fatta percepire) all’unione interna/esterna del soggetto nel Tutto, fino a produrre uno stato modificato di coscienza rispetto a quella ordinaria; fino a ridurre il controllo del limite individuale per acquisire spazi inusuali di adiacenza con l’Altro da sé. Questo vuol dire una forma capace di contenere sia il valore della sematicità che dell’asemanticità. Precisando però che nell’Adiacenza anche i sensi di questi termini sono resi reciprocamente relativi dal rapporto con l’altro (operante già all’interno del SS). Semanticità/asemanticità sono normalmente termini qualificati dalle Mod-Io; ma ciò che è definito asemantico da queste ultime è l’esplosione della semanticità se visto dalle Mod-Es. Viceversa, ovviamente, se il punto di vista è di queste ultime.

Il fatto che una parte debba “’per forza di cose’” entrare nell’altra, non è dunque “il dramma vitale della parola poetica” (RP, p.36), ma è la sua ricchezza, la sua festa, la condizione specifica della sua complessità. L’una parte senza l’altra non dà poesia, ma due ipotesi: o parola prammatica, piena di significati ideologici (in particolare ideologia della Verità); o, come già detto, flatulenze verbali, fatte d’aria più o meno malsana con (probabile) ideologia del Testo.

Solo lo spazio poetico (ma non solo, come già sottolineato) porta l’una e l’altra a intrecciarsi in fraternità, facendo scoprire, rispetto all’altro, una pratica che riduce e insieme esalta. La poesia è perciò, non solo una pratica di igiene mentale, ma anche un esercizio civile (non voglio usare il termine iperideologico di democrazia) di scambio con l’altro, a cominciare dall’altro che è già in noi.

Nell’Adiacenza il versante asemantico è (se il punto di vista è quello delle Mod-Io) “l’infinito limite di asemanticità” (RP, ibid.) nel buco nero del proprio “collassamento di sensitività” (RP, p.28), da cui deriva fra l’altro l’impossibilità della parafrasi della poesia; perché vorrebbe semplicemente dire ricondurla sul terreno della metafora e sul “piano…del quotidiano” (RP, p.65). Ma proviamo a non buttare via nel cestino questa apparentemente indiscutibile impossibilità.

L’ipotesi contraria implicherebbe che il senso complesso di un testo poetico, dopo essere collassato in un buco nero di antimateria (rispetto alla supposta materialità del “senso comune”, RP, p.59), riesca a riemergere nuovamente, attraverso un buco bianco, nella materialità così come normalmente percepita (mi pare che la traduzione di un testo poetico tocchi questo nodo). Possibile? Il successo, la fruizione e la circolazione sociale di un testo non dovrebbero essere altro che questa verifica. Ma la sua complessità e la sua aleatorietà, sappiamo come vengano ulteriormente intricate da mercato e dominio. Siamo perciò (forse) sullo stesso piano delle ipotesi (finora non verificabili) fatte dall’astrofisica degli ultimi decenni su materia/antimateria, universi paralleli, ecc, argomenti piuttosto divulgati e riproposti nel capitolo “L’altro universo” de La ragione poetica (RP, pp.56-66). A tale capitolo, particolarmente interessante, tendono dunque a ricondursi queste estrapolazioni.

In sintesi, l’applicazione da parte di Gio Ferri della teoria dei buchi neri al testo poetico – come capacità di questo di bucare lo spazio tridimensionale del quotidiano, riuscendo così a produrre uno “’spazio (mentale, ndr) quadridimensionale’” (RP, p.53) – implica l’altrettanta teorica possibilità di uscita da questi tramite un buco bianco; al pari di quanto ipotizzato dagli astrofisici per l’universo esterno. L’ipotesi, pur trattata con cordiale distanza, mi sembra che trovi qualche rispondenza in un brano particolarmente luminescente (RP, pp. 53-54) che Gio Ferri trae da Le forme del desiderio di Giuliano Gramigna.

Gramigna, richiamandosi al “Compendio di psicoanalisi di Freud”, ricorda “’due forme, una liberamente mobile e l’altra più legata…” che operano nella vita psichica. Se passiamo a un “’testo poetico, qualsiasi testo poetico’”, possiamo rilevare che la “’significazione opera…attraverso una dinamica di forze libere e forze legate, forze libere che diventano legate e, viceversa, forze che si slegano da stati o forme relativamente stabili in cui si erano costituite…’”

Mi paiono splendidamente rappresentate le modalità sopra indicate di mobilità e relatività degli spazi mentali, che a saperle cogliere, ci dicono – in particolare attraverso la poesia, ma ripeto tediosamente, non solo – la loro biologica tensione a rifuggire ogni categorizzazione assoluta. Così, ciò che pare rinserrato e infruibile (vedi le giare dell’inconscio proustiano) viene aperto e liberato, e ciò che pare libero, come il pensiero cosciente, ci lega coi suoi legacci. Assolutamente e relativamente necessari, tuttavia, l’uno all’altro; se ammaliati dalla magia costruttrice di quell’oggetto chiamato poesia, che come la vita ci sembra a volte di prendere, e poi nuovamente sfugge.

Milano, giugno 2000-2019

Adam Vaccaro