Lorenzo Barani, Filosofia del web

«CHE COSA CI DICE, CHE COSA DICE “NOI”, E CHE COSA SI DICE DI NOI…»

(una nota di Lorenzo Barani sulle tracce di Jean-Luc Nancy e Jacques Derrida)



Mi è consentito, e ringrazio Flavio Ermini, un fulmineo tempo di pensiero ad alta voce.

Taccio, dunque, ora del rapporto tra Web e Voce, titolo esigente che avrei desiderato suggerire e che tengo nel cassetto. L’Web, sotto l’apparente illimitato vociare, è l’implacabile oltrepassamento della Voce. La voce, come il suono, è corpo e si porta dietro le tenebre e il pesante e perciò, in virtù della sua ricchezza e delle sue segretezze, è più lenta della luce; da sempre, infatti, la voce anela alla luce e alla verità che sta nella luce. L’Web, sotto l’apparente illimitato vociare, è l’implacabile vittoria del veloce sulla stessa luce, dunque sulla verità che la luce parametra.

Taccio pure del titolo L’Web e la nuda vita che tengo accanto all’altro per la loro reciproca compagnia, temi che proverò a trattare nel Seminario di Filosofia per il Comune di Modena nel gennaio-marzo 2010.

Ho preferito tentare di comprendere una frase di Jean-Luc Nancy, «che cosa ci dice, che cosa dice “noi”, e che cosa si dice di noi…»; solo un incipit, beninteso, che tenta un approccio dall’interno dell’interrogazione a cui la filosofia è nuovamente costretta a questionare se stessa, disarcionata, così come si ritrova, dal Web. Certo, anche un semplice incipit si ritroverebbe nel garbuglio di impossibili scelte non volendosi ridurre a una mera elencazione delle molteplici quaestiones.

Vado dunque in leggerezza e pennello a guisa di semplice acquarello mentale, qualche rapida velatura, che, spero, lasci trasparire i solchi e gli arativi mentali che l’Web sta scavando nei logoi, nella voce, nella nuda vita, nella lingua e nella poiesis in generale. Della lingua voglio toccare il destino cui va incontro nel Web il pronome personale «noi».


I pronomi personali nella mondialità automediatizzata

Da tempo Jean-Luc-Nancy s’interroga sul destino del nostro mondo che si va globalizzando, sulle prospettive della nostra società e sulla relazione dell’essere singolare-plurale. L’attenzione filosofica all’uso sempre più problematico dei pronomi personali è da considerare un sintomo del tutto inquietante. Nella mondialità automediatizzata, è il caso di domandarsi se il soggetto io di «io sono divenuto questione a me stesso» (quaestio mihi factus sum, Agostino), abbia o no ancora qualcosa in comune con l’io che entra nel Web; se la relazione io-tu del linguaggio tradizionale ha ancora qualche riferimento con l’io-tu che viaggia in Rete. In-Rete tutti sono io per tutti e, all’unisono, tutti sono tu per tutti.

Questo unisono non va sottovalutato, perché è proprio la cosa da pensare. Nella virtualità elettronica dell’unisono, la contemporaneità del contemporaneo è in sé un’atemporalità del tutto indifferente al tempo, ed è in sé una aspazialità del tutto indifferente alla locazione. Nell’unisono della mondialità automediatizzata del Web, l’onnicompresenza di tutto e del suo opposto è tale da non rimarcare più nessun rilievo, da non salvare in sé, qua talis, nessuna differenza, neppure la differenza io-tu. In questo punto virtuale tutti gli io e tutti i tu sono compresenti con i loro logoi e i loro contra-logoi.

L’’unisono pensato nella potenza illimite della tecnologia precede e sovrasta senza confine la problematica stessa dell’unificazione delle lingue, processo che, peraltro, di per sé, ha già corso avanzato in direzione di una perdita stordente delle differenze. Nella babele dell’unificazione delle lingue, il problema della tra-duzione/tra-dizione delle lingue è dei più urgenti e complessi della Filosofia, e non lo si potrà più pensare a prescindere dal problema della lingua-Web, che non costituisce né una semplice metafora né una pura metonimia del linguaggio.

Prendiamo i pronomi personali come parte sintomatica per il tutto e chiediamoci: che ne è del destino dei pronomi personali, innanzitutto, dunque dell’identità e delle differenze, del sé e dell’altro, a partire dall’interno stesso del Web, ammesso che supporre una interiorità-Web non sia proprio quell’ingenuo e sviante antropomorfismo che va del tutto messo in lente. Eppure Agostino – ormai evocato ce lo ritroviamo innanzi – dopo aver scandagliato invano la propria interiorità alla ricerca di una verità incontrovertibile e stabile, non trova che impermanenza e transitorietà, e nonostante abbia passato in rassegna tutte le maggiori scuole di pensiero dell’antichità, dunque tutto lo scibile disponibile (già, che noi oggi diremmo in Rete). Solo a partire dall’altro, a questo punto con la A maiuscola, può rinominare propriamente, cioè secondo i giusti limiti, l’io, il tu, il noi. Questa avventura che va dall’io al noi passando per il tu (agostinianamente con la T maiuscola), ci porta nel cuore della questione dei pronomi personali. Ebbene, questa logica va radicalmente abbandonata se si vuole prendere sul serio il problema, il cui nocciolo è che la Rete ci precede, ci parla, ci dice, ci narra, ci interroga ben più radicalmente e ci interpella aprioristicamente ben più di quanto noi per lo più non si sia disposti ad ammettere. Il noi, se di noi si tratta, è il problema che ci si pone e da cui partire. Il fatto è che rispetto al Web siamo nella condizione inestetica del ciclista in salita, il quale via via che s’avvede che tutte le strade sono in salita e, paradossalmente, nessuna porta alla cima, checché si creda, suda, alita e puzza,.

In questa pre-cedenza e rinominazione dell’io-tu nel «noi» del Web, la tékne con cui si pone il «noi» e che si sottrae non va considerata tanto come un trascendentale veritativo, ma orbene come un’attuosità performativa, radicalmente metamorfosante. Non solo, ma la performatività non si limita al piano sociale, a una possibilità esteriore di commercio, di comunicazione, di informazione; diviene, piuttosto, anamorfosi pubblica e politica del mondo a venire, che attraversando l’interiorità di ciascuno, modifica l’intimità più sacra che ciascuno ritiene di essere, e questo ben prima dell’auto-certificazione pronominale e auto-possessiva. Ecco, tentiamo uno sguardo perspicuo su questo punto e riappelliamoci a Iean-Luc Nancy.


Essere singolare plurale nella lingua del Web

In Essere singolare plurale, J.-L. Nancy, scrive:

«Senza dubbio, noi ancora balbettiamo: la filosofia giunge sempre troppo tardi, e di conseguenza troppo presto. Ma il balbettamento stesso restituisce la forma del problema: noi, «noi», come dirci noi? Oppure, che cosa ci dice, che cosa dice “noi”, e che cosa si dice di noi, nella proliferazione tecnica dello spettacolo sociale, del sociale spettacolare, della mondialità automediatizzata e della mediatizzazione mondializzata? Noi non siamo più capaci di appropriarci di questa proliferazione, perché non sappiamo pensare la natura spettacolare…»1.

Nancy vede un salto rispetto alle società precedenti, proprio nella mediatizzazione mondializzata che costituisce la nostra società. La spettacolarizzazione prima di essere una devianza patologica di politici scalmanati e arroganti anziché no, è posta in essere ben più radicalmente dal semplice differenziale di potenziale tecnologico. Da lì derivano il fatto che è a portata tecnologica che tutti dicano contemporaneamente tutto, che il noi preceda illimitatamente l’io, che i contatti si moltiplichino all’inverosimile velocizzandosi magicamente, che il tempo di “collegamento” mediatizzato sia destinato a farsi sempre più assorbente e interlocutorio, e così via.

In questo «e così via» c’è la performatività del mondo a venire, rispetto al quale gli atteggiamenti di risentimento inveggente, le accuse di non senso degli eventi mediali, il rifiuto apocalittico2 che impedisce che la perspicuità della reale posta in gioco possono comportare la perdita del punto di gravità del presente. È necessario, piuttosto, per comprendere il mondo nel suo farsi, non alimentare un atteggiamento di sprezzo occludente la vista circa il fatto che, se nel frastuono universale certo ha luogo la megafonia, il sovratono, tuttavia il carattere specifico che dobbiamo pensare della nostra società è la spettacolarizzazione delle relazioni, dei sentimenti, delle comunicazioni, delle informazioni.

Qual è, dunque, la caratteristica della sovversione degli eventi nel mondo della spettacolarizzazione? Qual è il punto di immanenza da cui osservare i fenomeni nel loro divenire, tale da fare vedere i veri pericoli e tra essi, primo, la perdita di senso? Qual è il punto di gravità del presente che permette di individuare le forme opportune per combatterli?

Per Nancy c’è una strana visibilità intrinseca all’uso che la gente fa dei media multimediali, e proprio questa esposizione dell’atto di comunicare, di informare, di collegarsi e stare collegati, è proprio questa istanza di visibilità che costituisce la nuova sociazione, il nuovo collante del sociale e il particolare stravolgimento del politico. Tutto il reale esistente deve apparire in questo spettacolo; il reale deve farsi atto ostensivo di sé; l’agire deve agire nell’esposizione di ogni singolo atto. La tékne più raffinata si concretizza nel rendere concreta questa istanza di visibilità, questa sottolineatura di presenza. La tékne consente la presentificazione della presenza – direbbe Heidegger.

Il fiore all’occhiello della potenza dell’universale presentificazione e attualizzazione nell’esposizione-mondo è la Rete. L’orizzonte dell’accadere è sempre più circoscritto dalla forma-Rete. Il fatto che la forma-Rete si faccia un baffo dell’aura del senso, non significa che non sia comunque in se stessa che si rendano per lo più possibili gli accadimenti. Al senso subentra l’ob-stenso, alla significatività la spettacolarità. Il possibile sarà possibile solo secondo la forma ostensiva dell’accadere. Solo nel piano di immanenza della spettacolarità cadono i fatti, o non accadono affatto. Le filosofie che professano a vari titoli nostalgie del senso si devono interrogare e devono innanzitutto chiedersi se non svolgano il compito di distrazione dal punto di immanenza radicale della tecno-scienza e di inibizione della comprensione dell’orizzonte dell’accadere. Eppure, la filosofia deve pensare ciò che è realmente in gioco, la chance possibile-impossibile che è nelle cose.

L’essenza della spettacolarità sta nel gioco di moltiplicazione dell’alcunché imposto dalla logica dell’inter-ferenza della tékne. La tékne funge comunque da moltiplicatore, da valore aggiunto, da capitalizzazione in atto, da inarrestabile, insopprimibile attuosità. Ha visto bene Nietzsche quando colloca l’essenza di questa macchina performativa al di là del bene e del male, cioè nell’essenziale indifferenza ai valori, alle tradizioni, al consenso stesso. La tékne è la morte della politeia intesa come partecipazione alla costruzione di un senso comune, nel senso che la avoca a sé e solo al suo interno la rende possibile. Ridescrive a priori la scena che permette all’essere di mostrarsi e agli enti di divenire. Ma allora non si tratta più della politeia che crediamo di avere conosciuto, e invero è già da lunga pezza che ci bendiamo gli occhi innanzi alla sua tecnologica metamorfosi, perché già da tempo la tecno-scienza procede allo smontaggio del senso come scena del mondo e al suo rimontaggio nei termini della pura spettacolarità.

Ecco allora un primo punto su che cosa sarebbe la nudità di senso quando ci si interrogghi sul

«che cosa ci dice, che cosa dice “noi”, e che cosa si dice di noi, nella proliferazione tecnica dello spettacolo sociale, del sociale spettacolare, della mondialità automediatizzata e della mediatizzazione mondializzata?»3

Questo nuovo senso è il senso spoglio di rinvii teologico-metafisici, ed è, dice Nancy.:

«“il senso”(…) trasformato nel nudo nome del nostro essere-gli-uni-con-gli-altri: noi non “abbiamo”più senso perché siamo noi stessi il senso, interamente, senza riserve, infinitamente, senza altro senso al di fuori di “noi”»4.

Questo «noi» s-nudato di tutto l’apparato mimetico, proiettivo e di ogni transfert nel Padre, snudato di ogni genealogia e appartenenza, di ogni memoria e idealità, è il «noi» più impensato, è il peso più grande del mondo che nella nostra fragilità di infanti dobbiamo portare. Un vero salto rispetto alla metafisica.

In questa nudità assoluta di senso del “noi” nel mondo automediatizzato, l’apparenza elettronica ha già schiacciato in sé passato e futuro, ha già cancellato in sé lo spazio, l’animalità, il corpo, e ha già ritradotto la possibilità di essere nella possibilità della sua tecnologica spettacolarizzazione. Mai la filosofia ha ricevuto una sfida di questa portata, mai le categorie su cui nei millenni precedenti s’è strutturata subiscono uno spiazzamento così radicale e inaudito. Ci rimane solo una prassi impossibile, non una consistenza ontologica, psico-sociologica. Dobbiamo continuamente ri-leggerci, ri-pensarci nel bagliore del nostro apparire e riapparire estenuatamente velocizzato. Noi siamo balugini di noi stessi. Dice Nancy:

«Noi non dobbiamo identificarci in quanto «noi», come un «noi». Dobbiamo semmai dis-identificarci da ogni specie di «noi» che sia il soggetto della propria rappresentazione, e dobbiamo farlo in quanto noi compariamo: il pensiero di noi anteriore ad ogni pensiero – e la sua stessa condizione a ben vedere –, non è un pensiero rappresentativo (non è un’idea, una nozione, un concetto) ma una praxis e un ethos: la messa in scena della comparizione, quella messa in scena che la comparizione è. Noi già ci siamo, ci siamo già sempre, ad ogni istante. Non è una novità – ma occorre, a noi occorre, reinventarla ogni volta, entrare ogni volta di nuovo in scena»5.

Ora, elettronicamente, ogni punto dello spazio e del tempo è un “possibile” crocevia infinito di messaggi, informazioni, immagini, logoi e contra-logoi; di questa potenza inaudita è capace la tékne, oggettivamente. Che io abbia scritto “possibile” e non attuale non dipende dalla logica della tecno-scienza, ma, ad esempio, dalla contingente convenienza economica. Pensare filosoficamente, tuttavia, è portarsi al livello di maggior potenza della sfida. Per dirla in breve, citando Nancy:

«Noi non siamo più capaci di appropriarci di questa proliferazione, perché non sappiamo pensare la natura “spettacolare” (che releghiamo, tutt’al più, sotto le insegne inconsistenti dello “schermo” o della “cultura” […]. Noi non siamo all’altezza di «noi»…non abbiamo nemmeno cominciato a pensarci, a pensare «noi stessi» in quanto «noi»»6.


L’impensabilità dell’evento

In questo luogo estremo, la sfida della tecno-scienza alla filosofia è che «gli eventi nel loro accadere nella scena dello spettacolo contemporaneo non sono pensabili»7. Siamo incapaci di pensare la spettacolarità perché scioglie come neve al sole le categorie deontologiche tradizionali in cui saremmo tentati di inscriverla. Che il reale sia pura fenomenalità senza residuo, senza rinvio, senza noumeno, senza mistero, questo è il mistero, il segreto dell’oggi impensabile.

L’Web è il «qui e ora» dello spazio tempo simultaneo. Nel Web il «noi» non è mai la semplice autocoscienza di noi scrittori, di noi intellettuali, di noi occidentali, di noi gruppo di appassionati d’arte, ecc.; non è neppure un’indeterminatezza o una generalità diffusa. È una pluralità che si dice nella spartizione e nell’accavallamento contemporaneamente. Si è noi in una simultaneità multipla. Questa simultaneità multipla precede il mio stesso io che entra ed è in rete, come un’autoreferenzialità in generale, come un’appartenenza alla spettacolarità di ogni possibile referenzialità. Io entro come io particolare nella referenzialità generale e «ogni volta» come un unico, ma «ogni volta» mi precede la simultaneità dei «ciascuno» in cui vado a collocarmi e che mi consente di riconoscermi e di essere riconosciuto. Perché io possa essere debbo entrare in questa dimensione di spettacolarità tecnologicamente fondata. Dice Jean-Luc Nancy:

«L’«ogni volta» implica in un sol tempo la discrezione dell’«uno a uno» e la simultaneità dei «ciascuno». Poiché un «ciascuno» che non sia nella simultaneità non sarebbe nello-stesso-tempo-accanto ad altri «ciascuno», si troverebbe in un isolamento che non sarebbe neppure un isolamento, ma la pura e semplice impossibilità di designare se stesso, e dunque di essere «sé»»8.

Con l’Web non si tratta più di identità, ma di identificazioni. Dice Nancy: «mai identità, sempre identificazioni»9

L’Web ci costringe su una linea di estrema impensabilità della scena dello spettacolo. Innanzitutto, l’impensabilità è nell’ordine di una nozione univoca? Possiamo ancora dire, oggi, cosa significa impensabilità? L’impensabilità è nell’ordine del significato, o l’impensabilità che l’Web instaura se ne fa un baffo e si va ad attestare fuori di ogni significato? Come pensare semanticamente il bit e l’elettrone? Tutta la speculazione filosofica è nata per guantare l’impensabile e ogni volta da capo ripartire a ordinare il mondo in funzione dell’impensabile ritradotto così in impensato. L’impensato come punto massimo di esercizio di ordine e di potere. Ma, allora, che cosa di eccezionale si va prospettando se la filosofia avverte una difficoltà invalicabile di fronte alla messa-in-Rete del logos, alla riduzione dell’essere a pura immagine fenomenalizzata, spettacolarizzata?

Di che razza di sottrazione è portatore l’Web? La filosofia ha da sempre coltivato un’inimicizia rispetto all’attualità del proprio tempo e ha pensato l’impensabile per respingerla, per metterla alle strette, così concependo la verità come scarto, come s-velamento-ri-velamento, come a-lethzeia. Oggi sembra che si siano capovolte le parti e che la chance dell’impensabile non appartenga più alla filosofia, alla religione, ma alla tecno-scienza. Questa, nata per l’evidenza e la manifestatività dimostrative nell’esattezza calcolatoria, è proprio lei che oggi respinge la filosofia dall’impensabile che sempre l’ha attratta e di cui da sempre è stata vestale.


L’evidenza come impensabilità

L’Web, fiore all’occhiello della tecno-scienza, si pone come attualità in atto in ogni direzione e questo al di là di ogni pretesa consistenza sostanziale, di fondamento o di principio. Sbalza da cavallo, dal sancta sanctorum della metafisica i suoi dispositivi più possenti e fa dell’attualità in atto tutto il gioco possibile. Come farsi carico dell’evento in un’attualità ricondotta alla pura spettacolarità? Si potrebbe pensare che si va aprendo una nuova chance al di là di ogni senso?

Siamo a ripensare i parametri metafisici nella filosofia moderna. Per Cartesio l’idea chiara e distinta è il sintagma per eccellenza della verità dell’io che si dà solo nella scena stessa della sua evidenza. La ragione moderna è l’evidenza evidente per l’io come per chiunque. Osserva Nancy:

«La scena è lo spazio della comparizione, in mancanza del quale resterebbe solo l’essere puro e semplice, ossia tutto e nulla, tutto come nulla.

L’essere si dà singolare plurale e si dispone in tal modo come la propria stessa scena. […] In tal senso, non c’è società senza spettacolo o, meglio, non c’è società senza spettacolo della società. […] Non c’è società senza spettacolo, poiché la società è lo spettacolo di se stessa.»10.

Si appare a sé e agli altri distintamente e simultaneamente, essendo la comparizione l’essere-insieme sociale stesso. In questo senso «si appare a sé solo nella misura in cui si è già un altro per sé»11

Bene! Il fatto è che l’attualità ricondotta alla sua visibilità virtuale è insieme l’evidente per eccellenza e l’impensabile stesso. Abbiamo pensato in antico la verità incontrovertibile del Modello ideale a partire dal quale, nella logica mimetica, nella logica della corrispondenza, abbiamo pensato il mondo. Poi, nella modernità, l’abbiamo pensata nella logica secondo evidenza della soggettività e della rappresentazione. Ma, oggi, l’evidenza puramente evidente nell’infinitesimo, e basta, è impensabile. Superiore alla velocità della luce e del pensiero. Il miliardesimo di secondo la tékne saprà calcolarlo, ma noi non riusciamo a pensarlo, a significarlo, a memorarlo, a narrarlo. Un’evidenza invisibile, una visibilità invisibile – ma è la pura visibilità senza fondo, senza veli, infondata e infondabile; uno spettacolo in-svelabile. Il messaggio digitale, l’immagine elettronica, una notizia informatizzata partono già senza fondo, non patiscono la mancanza di fondo, non viene loro a mancare nulla. Partono da un non-inizio e compiono una vicenda virtuale. Tutto è già sempre mancato e tutto è già sempre passibile di comparizione, dunque tutto è ridotto alla mera apparizione nel non tempo e nel non luogo propri della mediatizzazione iperelettronica. Si sgancia la relazione tra tempo e verità, relazione che precede e fonda la filosofia stessa. È di Talete, il primo dei sette sapienti, la sentenza che ci riporta Diogene Laerzio: «Il tempo di tutti è il più sapiente perché scopre ogni cosa».


Il senza fondo della pura spettacolarità

La dematerializzazione della dimensione “al di là della luce” fa saltare l’apparato categoriale di riferimento (materia-forma, sostanza-accidenti, potenza-atto e tutte le liturgie linguistiche, sintattiche, di consecutio temporum e tutte le inflessioni espressive conseguenti) evocando l’impensabile demone della pura apparenza della totalità, demone che s’aggira irremovibile per il mondo impermanente delle pure apparenze. L’arte delle avanguardie aveva anticipato qualcosa di simile, nel suo smembrare ogni durata della tradizione, ogni tenuta durevole delle forme. Tutto diveniva possibile e ogni azzardo ne richiedeva un altro fino al funambolismo della mera gestualità dell’artista, fino alla confezione ed esposizione della defecazione d’artista, ovvero alla coincidenza della performance con la performatività pura. Non faccia velo all’intelligenza la scabrosità ambigua dell’immagine Merda d’Artista del Manzoni, che invece inscatola nel massimo di artificiosità e di artefattualità la più nuda e la più povera naturalità che sia concessa alla nostra natura di animalità, com’è degli umori, del muco, dello sperma, del latte, e che so io.

L’Web si spinge ben oltre, fino alla declarazione dell’evidenza che nell’atto virtuale infinitesimo non c’è più nulla da pensare. Non reggono la delocazione spaziale a tentare uno smontaggio-rimontaggio di senso, un cambio d’uso dell’oggetto, uno spiazzamento simbolico; tutte operazioni disperate del senso e nel senso tentate dall’arte delle avanguardie. Il paradosso dell’arte d’avanguardia sta nella bellezza della disperazione assoluta del senso a cui fa da apripista e che vanamente potrebbe illudersi di seguire. Capolinea abissale, vertigine della vertigine: tutta la storia dell’opera d’arte precedente aveva ritenuto di lasciar più spazio allo spirito dematerializzando il gesto dell’artista, puntando sempre di più sull’atto del creare, dell’inventare, del porre, dell’installare, ma è ora, nel Web, che l’infinita potenza dell’attuosità si ritrova esibita in sé senza spazio e senza tempo, nella virtualità stessa del suo differenziale di potenza.

Certo l’opera d’arte, più della filosofia e della teologia ha rincorso, preceduto, guantato la folle velocizzazione della tecno-scienza. Perciò, a suo modo, l’Web, come forma del linguaggio e della vita, è forma d’arte, la forma che l’arte delle avanguardie ha concepito e che ora viene conseguita, infine, non solo al di là delle forme, ma oltre, addirittura fino alla distruzione tecnologica dello spazio e del tempo – involucri necessari, si è sempre ritenuto, dell’arte. L’arte dà forma di visibilità spettacolare alla cosa nella magia tecnica della mancanza-presenza dello spazio e del tempo. Così, si pone come la visibilità da vedere e come l’informazione da ascoltare al di là del vero, come l’annuncio che si dà, semplicemente, al di là del vero.

Il fenomeno-in-generale divenendo automaticamente spettacolarità, prende forma d’arte, di fenomenalità, un’apparenza nella sua forma propria, cioè di pura apparenza. L’opera d’arte nel ventesimo secolo compie la vertiginosa metamorfosi di scomparire nella sua proprietà specifica di carattere estetico e acquista il compito infinito non di costruire modelli, ma di donare “apparenza di forma” all’istante che, velocizzato all’inverosimile, scomparirebbe nel suo stesso apparire, anzi, sarebbe già scomparso nel suo stesso apparire. Appare solo in quanto già scomparso. Infatti, la spettacolarità dà consistenza di presente all’esistente come all’inesistente indifferentemente, proprio per la natura fuggente più della luce del bit e dell’elettrone. Così l’evento acquista valore estetico e la forma d’arte si spalma su tutta la vita, nel nostro caso rende spettacolare tutto ciò che transita per l’Web, cioè tutto.

È in atto una tangenza tutta speciale tra la spettacolarità del mondo attuale e lo spettacolo che ha a che fare con l’opera d’arte. Spettacolarità nella assolutezza della lingua del Web ed evento dell’arte convergono in un oggi asintotico. Ciò che risulta impensabile alla filosofia è la convergenza asintotica di pura spettacolarità ed evento dell’arte, di pura spettacolarità e storia, di pura spettacolarità ed economia, di pura spettacolarità ed amore. A proposito di spettacolarità ed eros, abbiamo sott’occhio esempi illustri che andrebbero letti, dunque, non tanto nella forma del disgusto etico-politico, quanto nel loro porsi come esempi limite di volontà di consistenza della pura apparenza. La pura spettacolarità ci ha sempre preceduti e ci può sempre seguire, indifferentemente; infatti, non perché spudoratamente apparente e basta, non perciò ci obbliga meno ad assistere ai suoi giochi di effetto a catena, giochi non certo senza causa, ma indifferenti a ogni causa, dunque davvero sconcertanti.


L’evidenza impressionantemente smarcata del puro darsi da vedere dell’evento

L’evidenza impressionante del puro darsi da vedere dell’evento che si impone è già un’evidenza smarcata rispetto alle domande etico-deontologiche della filosofia. È assai difficile pensare un evento il cui accadere venga perduto ogni volta che lo si solleciti a rispondere del suo messaggio, del suo referente, del suo senso, del suo essere. Il singolo evento non è tale da finire per non essere decisivo e interlocutorio, nel Web, a causa del flusso illimitato di informazioni, di messaggi, di linguaggi, di relazioni. Nell’orizzonte del Web nessun significato è decisivo per il suo evento. Il singolo evento, se di evento si debba parlare, non è mai decisivo per il suo senso, accadendo in un mondo fuori dell’ordine di senso e anche fuori dell’ordine del non senso. La filosofia, anche nella più vertiginosa fenomenologia, è in difficoltà a parametrare una fenomenalità che si offre in riduzione zero di senso, e dunque totalmente in rotta con l’attitudine onto-metafisica.

L’opera d’arte è stata più duttile e sottile nel seguire come ombra la velocizzazione dei mutamenti imposti dall’evoluzione della tecno-scienza. La storia del Novecento mostra la potenza della tékne di spostare i limiti dell’esperienza del mondo. L’Web, in questo senso, è un fiore all’occhiello di questa rivoluzione in atto. L’Web è un dominio in cui si generano le differenze di potenziale inaudite, tali da accelerare il corso della vita fino a farlo uscire dai suoi cardini, dai cardini del tempo e dello spazio. Non solo quindi le categorie dell’intelletto sono messe sotto una pressione improponibile, e con esse tutta la logica trascendentale del Soggetto kantiano, ma la stessa estetica trascendentale, le forme pure spazio-tempo, il basamento stesso della fenomenicità del Soggetto. La potenza attuale della tecno-scienza mette sotto pressione tutta l’esperienza per strapparla da ogni limite. Così la tecnica funge da piano inclinato dell’illimite su cui la vita ha preso a scivolare, a lasciare tutto alle sue spalle, persino se stessa.

Dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale, la tecno-scienza è il luogo di tutte le accelerazioni e di propagazione di mutamenti inesausti; nella propagazione della velocizzazione infinita solo una certa formalità, che chiamo spettacolarità, riesce talora a rattenerla per un attimo. Ecco perché tutto tende a farsi spettacolare, religione compresa. La filosofia non è in grado di stare al passo e di formalizzare l’esperienza nel merito dell’universo mediale. Non c’è frammento virtuale o frame della vita che oggi possa sottrarsi di principio alla sua possibile esposizione mediatica, e nel contempo, non c’è frammento mediatico che non aspiri alla spettacolarizzazione, cioè alla sua elaborazione tecnologica.


La mobile frontiera tra la spettacolarità degli eventi e l’opera d’arte

La formalità estetica è funzionale alla vertigine della accelerazione tecnologica, anzi, la ri-configura come esperienza possibile. Per il resto pare che non ci sia resistenza al rovello rivoluzionario tecno-scientifico. Che la temporalità del tempo della tékne rivendichi a sé tutta la possibile rivoluzionarietà della produzione-mondo è ormai evidente e segna il declino delle ideologie rivoluzionarie, che nel corso del XX secolo si sono trovate nella condizione della rincorsa perdente, invece che della anticipazione seduttiva. Oggi, l’unica forma capace di cavalcare la produzione tecno-scientifica dell’evento è la forma-spettacolarità. Per ciò che concerne il punto d’incontro umano delle nuove generazioni, l’Web è come il nuovo esperanto cosmopolita in virtù dell’universalità della sua estetizzazione spettacolare. Lì sta la nuova formula della politica. Tutti, giovani e non più giovani, preceduti nel loro essere da questo necessario dover apparire, desiderano approdare, a questo universo della multimedialità, nell’aspettativa della permanente traduzione multimediale del loro essere sociale. Sono persuaso che il problema della traduzione sia il vero problema del linguaggio negli anni a venire. La macchina della traduzione del mondo nella multimedialità è la spettacolarizzazione, la possibilità della totale fenomenalizzazione, e questo è il cuore battente dell’Web. D’altronde, Web sta a significare la svolta epocale in cui tramontano tutti i grandi dispositivi di traduzione del moderno. Il fatto è che l’Web, che pure appare come la più smagliante circolazione di idee, interessi, proposte, contatti, informazioni, nella sua accelerazione tecno-scientifica senza centro e senza perimetro, brucia in volata ogni dispositivo traduttivo, ogni processo di formazione di cultura e di Bildung. Questi processi esigono e assorbono spezzoni di temporalità che subito risulta inattuale e anacronistica rispetto al continuum della dimensione ininterrotta della circolazione e del collegamento. La realtà virtuale del Divenire-Web è la sua pura fenomenalità, estranea al resto, perché senza resto di sorta. Tutti i frammenti spazio-temporali della possibile esperienza sono traducibili nell’immagine spettacolare; tutto il reale deve venire riscritto in immagine mediatizzata.12

Ma l’apparato categoriale mentale e disciplinare per comprendere la chance di questo processo resta ancora in ombra; da qui il disagio a trattare dell’ Web, lo spirito di risentimento nei confronti della pura fenomenalità che è in atto nella multimedialità. La filosofia, in merito, sta segnando il passo, mentre l’Web incalza indomito. La filosofia, che sempre ha avuto la passione per lo scarto e la differenza rispetto al reale esistente e sempre ha inseguito l’impensato, si trova, oggi, a solidarizzare con gli arroccamenti del reale e dell’umano che non vuole lasciarsi tradurre in immagine spettacolare. Stenta in tutti i modi ad aderire alla nuova misura dell’alethzeia come pura nudità del virtuale. Il fatto è che la derealizzazione dell’esistente, la riduzione dell’esperienza a flusso immaginale impone una nudità assoluta.

È cambiato, con Web il criterio di verità: si tratta di un’alethzeia senza lethe. Un’immagine senza contro-realtà, una vertenza senza contro-versia, una partita senza contro-partita, un dictus senza contra-dictus, o meglio, un’infinita dizione all’unisono dell’infinita contra-dictione, una relazione senza cripte e segreti dell’io e del tu nel noi, un rapporto immerso in un noi indeterminato e indeterminabile. Passaggio dal futuro al passato senza presente testimoniale e testimoniabile, senza l’«Egli » della parabola di Kafka, così come la riprende e la argomenta Hannah Arendt in Tra passato e futuro.13

La spettacolarizzazione è l’unico istante di permanenza nell’attuale della visibilità trasfigurata dell’evento elettronico, digitale, ipermediatizzato, sempre troppo veloce per non essere già passato. Hai un bel da contare in millesimi di secondo, in milionesimi di secondo; ogni cifra che proferisci è già illimitatamente inesistente. Il tuo contare è già s-contato e non sta contando nulla. Sì!, non solo conti il nulla, ma il tuo contare non conta nulla e tu con lui. Allora non ti rimane che credere nella verità elettronica del contare, e così, paradosso, il massimo di tecno-scienza e la credenza, sempre ritenuta pre-scientifica, si incontrano in una linea di confine indecidibile. L’indecidibilità, dacché Web va irretendo il mondo, è una linea di confine che taglia all’interno sia la credenza sia la tecno-scienza, ed è comunque una nuova misura per iniziare a pensare l’Web. Non rimane, certo, intatta la credenza (leggi religione, ideologia, fede politica, tifoseria sportiva, ecc.) agganciata al transito dell’apparente nella momentanea permanenza, nel trattenimento del transito nel bordo sempre già inattuale dell’attualità. Proprio perché l’evento, la notizia, l’invenzione stessa non sfiorano che i margini dell’attualità, ecco che non bastano più neppure alcuni canali televisivi e alcune testate di giornali per essere attuali. È un bel peccato possedere canali televisivi, testate di giornali, case editrici e, non poter controllare, di principio, l’Web.


La fascinazione est-eatica (estetico-etico-mediatica) e il male assoluto

Oggi, la politica e l’etica subiscono senza quartiere il fascino del differenziale di potenza della macchina tecno-scientifica e ne rincorrono sconsideratamente la mera spettacolarità. In questo modo invece che amministrarne, nell’ambito del possibile, le chances e le contraddizioni, desumono tutta la loro logica dalle forme del sistema di ricatto della spettacolarità. Ma questo piano inclinato si affaccia già sull’orlo della vertigine. Che cosa si intravede già? Si intravede il male senza senso, il male senza ragione. È il male assoluto che, appunto, compare quando la ragione non è più in grado di elaborare un senso, ma intanto l’agire continua a procede indifferentemente performativo.

Scrive Meazza: «Dobbiamo convincerci che la nostra epoca è capace di un male gratuito con una confidenza impossibile in altre epoche (nelle epoche in cui dominano le figure del senso il male è sempre fatale, ma non gratuito. Esso è l’eterogenesi di un bene particolare. Le religioni infatti ne costituiscono, quando perdono il rapporto con la fede, il paradigma esemplare)»14. Già per gli scolastici, il male doveva vestirsi del bene per motivare l’azione, e quindi il bene rimaneva come causa formale anche del male. Oggi questo non vale più, e in radice non vale più. Oggi la tecnica avanza senza fini, senza bene finale di sorta. In un mondo in cui l’agire e il produrre possono essere senza fini, il male può mostrarsi in tutta la sua gratuità. La fascinazione per la spettralità estetica degli eventi può comportare la nuova gratuità del male. Il nodo sta nella reciproca conversione di spettacolarità del presente ed evento estetico. In che senso qui si cela il male assoluto? Nel senso che la pura spettralità, la riduzione ontologica alla pura apparenza, ritraduce il fenomeno in fenomenalità, cioè in fenomeno senza traccia, senza lascito, senza testimonianza, senza responsabilità. Tutto e l’opposto di tutto è possibile, e qui sta la radice del male assoluto, sciolto da giudizio e da giustizia. C’è un’incredibile inaccessibilità da parte del pensiero pensato a entrare nel meccanismo della conversione reciproca di eventualità e spettacolarità.

Per Jean-Luc Nancy, l’essere-gli-uni-per-gli-altri è l’unica misura mentale e il solo argine sociale al dilagare tecnologico del male radicale. Ma è già dentro un «noi» intessuto dai nodi della Rete, tecnologicamente preceduto e oltrepassato dal differenziale di potenza della tecnica. E in effetti, la prospettiva che si è aperta con l’Web è per degli io-tu che sapranno destreggiarsi in Rete nella misura del loro essersi alleggeriti di ogni bagaglio metafisico, ma capaci di inventare un «noi» non indifferente al male assoluto. Fare i conti con la Rete e vivere il mondo del Web comporta una estenuante apnea ma esige insieme una grande creatività, uno stato di disillusione-seduttiva, per ricorrere a un ossimoro, se non ci si vuole abbarbicare in modo letale a un’altra istanza onto-teologica già fagocitata in partenza dalla realtà di fatto tecno-economica.


La mancanza che non manca e la figura della différance di Derrida

Dunque la inaccessibilità della filosofia alla produzione-mondo secondo la tecno-scienza starebbe nel confine osmotico di eventualità e spettacolarità. Bene, la spericolata riflessione di Derrida sulla différance e sulla sua doppia distinzione sia dall’identità sia dalla differenza ha proprio di mira questa inaccessibilità. L’intera pratica della decostruzione è un entrare nel merito.

Innanzitutto, la decostruzione segna il venir meno di ogni altezza e di ogni profondità. Derrida prende sul serio il fatto che gli eventi sembrano accadere senza sfondo, come che l’orizzonte dell’accadimento coincidesse con l’accadere stesso dell’evento e, quindi, con l’evento stesso dell’accadere. Ebbene, quale vuoto segreto regge questa conversione dell’accadere dell’evento nell’evento dell’accadere? La différance vuole leggere questo vuoto segreto, vuole decodificarlo, sa che è lì che bisogna lavorare a ricreare, per non essere sempre in ritardo, sempre fuori sesto, per non «cercare mezzodì alla quattordici». Ebbene, la produzione della spettacolarità e la coincidenza dello sfondo dell’evento con il mostrarsi dell’evento stesso sono la nuova relazione extra-ontologica, la nuova scena del virtuale che importa pensare. Non pensare il virtuale nel suo continuo vertiginoso prodursi e riprodursi sarebbe riaffidare la decostruzione e la différance a una nuova modulazione della differenza ontologica, che altro non sarebbe che l’altra faccia del Medesimo e dell’Identità. Un inutile, nuovo capitolo di una ratio che ha già perso di vista il reale come virtuale.

La filosofia della différance vuole entrare nell’orizzonte impensabile dello spettacolo senza sfondo degli eventi e prova in vari modi a smarcare la filosofia dalla scenografia metafisica da cui pure prende le mosse. Giunge a mettere in evidenza la diversa natura dell’evidenza virtuale rispetto all’evidenza della verità onto-metafisica. La mancanza abissale che intesse la virtualità è di altra natura rispetto allo scoperto-velato del paesaggio filosofico tradizionale. La virtualità si accompagna a una mancanza che non si presenta come mancante e si sottrae così alla critica. La logica stessa della identità e della contra-dizione rimane fuori soglia rispetto alla pura presenzialità del presente nell’attualità della sua attualizzazione.

La filosofia in generale sembra dover segnare il passo di fronte a un insieme che, come l’Web, nell’opulenza dell’attualità della sua ex-posizione, non mette affatto in opera il proprio mancare radicale, tanto che la sua mancanza non fa segno, non alberga pentimenti, non dà estro a confessioni, non lascia traccia del suo stesso mancare, condizioni necessarie perché la filosofia metafisica proceda appunto a liberare un senso inveduto, inattuato, impensato. La spugnosità assoluta del virtuale sbaraglia in anticipo le accuse di superficialità e si fa un baffo del non senso.

L’Web mi appare come un insieme sterminato, illimitato dell’illimite, come un àpeiron anassimandreo inverso, dove tutto è destinato a confluire, ad archiviarsi, a mettersi in folle circuitazione, nell’indifferenza indifferente di un ipotetico mondo esterno, di una physis, di una qualsivoglia naturalità. L’Web, a ben vedere, non fa neanche questione dell’impensato, ma dell’impensabile, o meglio, dell’indifferentemente pensabile. Un insieme la cui messa in scena non è effetto di una causa, non è il fine di uno scopo, manca di ogni sfondo di riferimento, ma soprattutto un insieme assolutamente inverificabile, invalutabile, un insieme mancante della sua stessa condizione di possibilità, un insieme che di tutte queste mancanze non lascia traccia alcuna, una mancanza senza traccia del suo mancare, un mancare inassegnabile in una presenza. Ebbene, del Web non c’è critica che tenga, che non vi sia già caduta dentro, che non si perda nell’infinita circuitazione del tutto. La critica coglie la contraddizione, morde la approssimazione di senso, ma l’Web senza fondo si fa un baffo del senso e del contro-senso.

La posta in gioco estrema, nelle cui prossimità ci conduce la filosofia della différance di Derrida, compiuto il cammino della decostruzione dell’identico e del differente, sta nello spingere se stessa al di là di se stessa, ma un al di là non concepito come un altrove in rapporto a sé, come un proprio altrove, ma un altrove differente dalla stessa differenza, la disseminazione infinita del testo e della scrittura. Qui il pensare deve divenire puro ritmo performativo, evento performativo a sua volta, e deve accettare il passo della forma estetica così come si pone nella sua inessenzialità. Si tratta di tentare l’impossibile decostruzione della voce disperata – vibrazione di spettacolarità che si dona e si disperde come i cerchi concentrici sul pelo d’acqua dello stagno del linguaggio del mondo. Si tratta di carpire la voce insperata del mondo e di esprimerne l’energia, il ritmo, l’andamento, la musicalità.

Qui si apre lo sterminato orizzonte del Web, una differenza che si fa un baffo dell’identità e della differenza, un mancare che non si vela più mentre si svela, che non si rinvia mentre si presentifica, una performatività che ogni volta batte su se stessa come colpo riuscito e compiuto al di là di ogni dire, oltre i logoi possibili e gli illogici possibili. L’Web fagocita il giorno e la notte, le vie delle cavalle condotte dalle dee di Parmenide verso la Verità come Giustizia. L’Web onnivoro fagocita la coerenza e l’incoerenza, ingurgita ogni nocenza e ogni innocenza, deglutisce ogni senso e contro-senso, pura attualità performativa dell’accadere degli eventi tutti indistintamente.

La filosofia di Derrida è leggibile, infine, come la messa in scena opulenta dell’impotenza metafisica nei confronti della spettacolarità degli eventi e del loro orizzonte virtuale, ma è pure un passo avanti verso il recupero della divina unità di filosofia e poesia, la creazione della filosofia come poiesis, opera d’arte e letteratura insieme, come contro-spettacolo e spettacolo a sua volta.



Lorenzo Barani (Castelnuovo Rangone, Modena, 1948) insegna filosofia al Liceo Classico S. Carlo di Modena.

Ha pubblicato: Vita Spinoza (1986) Edizioni Tam Tam, con un saggio di Adriano Spatola; Lilla, viola, talvolta però fucsia (1987), per l’Almanacco Tam Tam; San Peregrino (1989); Nietzsche e le cure dell’io. L’innocenza del tempo e la logica del risentimento (1998); Derrida e il dono del lutto (2009), Anterem Edizioni.

Fa parte della redazione della rivista filosofica éupolis.