La porta meta fisica, nota dell'Autrice

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Antonello da Messina, Virgin Annunciate, 1476 (Palazzo Abatellis, Palermo)

 

Alla fine scopri che il tuo vero grande amore è stata una porta. Cesare Viviani

 

Eludiamo il corporeo. Come la musica, puro movimento che elude l’oggetto da cui proviene. O come il timbro della voce leggente che elude la plumbea dimensione dei caratteri tipografici. Oppure le pagine dell’Annunciata – puro zefiro d’ali - che eludono l’angelo. Musica e parola leggente, frutto di discretizzazione del continuum, sono oggetti metafisici. È vero. Ma è vero pure che hanno un unico obiettivo: raggiungere la corporeità del fruitore sorpassando le sovrastrutture intellettualistiche.

La mia meta è fisica. E nella scrittura, nell’arte questo significa forse tornare al corpo tradendo in parte quella visione metafisica ma senza potere da essa prescindere. È un procedere dalla fisica sinestetica della nascita alla metafisica di una crescita razionale fino ad arrivare - di nuovo - alla fisica della maturità (o dell’aurea dissennatezza!).

Va bene, va bene..! La bellezza risulta dalla capacità di discretizzare il continuum sinestetico nel discontinuo del pensiero, della parola e dell’arte… bla, bla, bla; ma io sento, sento l’urgenza fisica di riportarla poi con un colpo di scena nuovamente all’informe primigenio tramite la corporeità del suono, della prosodia, di una scrittura “timbrica”.

Questo mi induce a utilizzare anche un sistema musicalmetrico: riprodurre un suono di cui si è perduta la corporeità per il tramite delle dita tamburellate in arsi e tesi. E le parole trovano posto nella composizione - il loro posto - quasi si trattasse di un’accordatura nella geografia del verso. Spostarle, poi, diventa difficile per me. Più alta avverto questa difficoltà maggiormente soddisfatta è l’urgenza di suono, di corporeità.

La rivelazione dell’Essere e di ciò che è esistente (dunque cultura) non è improvvisazione, inattesa e comoda epifania; ma lavoro che affina la congerie dell’esistenza nel discontinuo dell’arte e della parola solo per ricondurla consapevolmente (magari anche stoltamente) al continuum di un tempo primo. In questa deperibilità della bellezza – ché la bellezza sta nella deperibilità della bellezza! - in questo disfarsi del corpo che vuole tornare alla terra c’è la ricerca – la mia ricerca - di unità, di eternità, di poesia.

Varcare la soglia è riportare il noto - razionale frutto di affinamento per così dire metafisico - verso l’ignoto. Significa trasformare quel processo - che conduce il codificato esistente (cultura) al continuo del flusso primigenio (natura) - in un luogo fisico, un varco. Lo spazio timbrico ha in questo contesto un’importanza determinante. Il timbro, il suono è l’ultima coordinata concessa che mi consente - anche a occhi chiusi e in anticipo sul pensiero - di trovare la strada, il coraggio di varcare la soglia. Di vedetta sul Caos a occhi chiusi, dunque, m’abituo al dettaglio che era metafisico per ravvisare la parola al solo tocco d’avorio. I suoni più piccoli, lo so, rimarranno impigliati nelle zampe alate di serafini senza sosta e continueranno a posarsi su rami altissimi a sostenere l’eminenza del luogo, del logo…

La porta meta fisica è passaggio dal sacro al profano; secolarizzazione dell’immagine di Cristo in Uomo-Cristo-poeta. Ma sollevare il mondano al sacro, secolarizzare il sacro equivale forse a sacralizzare il mondano. Mi vengono in mente i portali delle Chiese, metafora di Cristo dove Cristo è metafora clipeata di se stesso: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo” (Gv 10, 9). Dall’ordine al caos, l’unica presenza divina con funzione apotropaico- tutelare è, quindi, il suono e in ultima istanza la flagranza della poesia, di uno zefiro d’ali.

L’universo linguistico fortemente simbolico che prolifera attorno al sema ‘porta’ sottende al cambiamento di stato, al passaggio. È Ermes - psicopompo protettore dei passaggi fatti via terra

- a incarnare lo spirito di questo attraversamento. Il messaggero di dio funge anche da interprete

e dal suo nome deriva, infatti, la parola ermeneutica, l’arte di interpretare i significati nascosti. Non per nulla, è anche il dio degli oratori, della letteratura, dei poeti nonché rappresentante del lógos. Non per nulla, il piccolo messaggero inventa nel suo primo giorno di vita la lira con la quale incanterà Apollo.

Se la metafisica è anche ricerca del fondamento, ossia di ciò che spiega il reale, “la porta meta fisica” è la ricerca del fine o della fine, del suono inteso come ponte di passaggio tra il mio

pensiero e il mio corpo, il discontinuo e il continuum, il razionale e l’irrazionale, la lucidità e la dimensione onirica, tra il fondamento e il fine, la fine.

Nadežda Mandel’štam, moglie del poeta Osip Mandel’štam, scrive: “Mi sembra che per un poeta le allucinazioni dell’udito siano una specie di malattia professionale. La poesia comincia così. Molti poeti l’hanno detto, dall’autrice del Poema senza eroe allo stesso Mandel’štam: al loro orecchio risuona ossessiva, prima informe, poi sempre più definita, ma ancora senza parole, una frase musicale. Mi è capitato di vedere Mandel’štam che cercava di liberarsi da uno di questi ritornelli, di scuoterselo di dosso, di sottrarsi al suo potere […] La Achmatova raccontava che, quando fu assalita dalla melodia del Poema, avrebbe fatto qualunque cosa, pur di liberarsene: si mise pure a lavare i piatti, ma senza risultato. A un certo momento, attraverso il tessuto della frase musicale si facevano improvvisamente strada le parole e allora le labbra cominciavano a muoversi. È probabile che il lavoro del compositore e quello del poeta abbiano qualcosa in comune e che la comparsa delle parole segni il momento critico che distingue fra loro queste due forme di creazione” (L’epoca e i lupi, trad. di Giorgio Kraiski).

Quando la notte scuote le ossa, oscillo come una scultura di Calder contigua al cosmo per divina differenza e mi espando, discontinua. Non vedo muschio: il mio ago scuce il Sud, l’isola nell’isola dell’isola. Sono pronta. Chi mai vorrebbe trovarmi! I musici non ci sono per nessuno; vivono altrove a fomentare la notte in ascolto da ere, a discretizzare da quel tempo primo pulviscoli di scomposta bellezza e a riportarli poi oltre la soglia del sonno, del suono.

È in questo percorso che la parola sancisce la sua definitiva volontà a distaccarsi dal noto per rivolgersi all’ignoto irresistibile, alla sua musica, alla residua flagranza della luce, alla porta azzurra. Maria Grazia Insinga