Marco Ercolani, prose inedite “Turno di guardia”, con una premessa di Mara Cini

Le prose di Ercolani affermano, in piena consapevolezza che èla forma di ogni opera, dispiegata attraverso il suo specifico linguaggio (segno, immagine, suono…), ad essere significativa – non certo, non del tutto, le eventuali, descritte, “emozioni” che pure fanno da trama, come si conviene, alle pagine.

E’ innegabile però che questi testi (i testi di Turno di guardia) si pongono in equilibrio tra letteratura e analisi situandosi su un crinale dal doppio orizzonte dove lo sguardo prende le misure al racconto e, pacatamente, continuamente, ne rinnova approcci e distanze.

 

 

Turno di guardia

estate 2009 – estate 2010

Questa esistenza demonica,

questo vivere in estrema vicinanza con l’assoluto,

in beatitudine e orrore,

sfugge all’alternativa salute-malattia.

Karl Jaspers

 

 

Corsia notturna

Durante il giorno mi riferiscono deliri malinconici o magiche visioni del mondo. Mi raccontano crimini inesistenti, ingiustizie spietate, desideri favolosi. Parlano e parlano. Commentano, delirano. Ma, a notte alta, quando dormono nella corsia, vorrei spiarli con una piccola pila, attento a non fare il minimo rumore, vorrei capire se la sofferenza di poche ore prima ha lasciato una cicatrice reale nella loro pelle. Immagino occhi scuri, palpebre pesanti, labbra semiaperte. Oppure volti deformati da accessi di collera e pianti clamorosi che riposano come se nulla fosse accaduto, smemorati, immersi in un silenzio collettivo. Ma quella pace non mi appaga: è generica, vuota. I folli, svegli o dormienti, non sono mai simboli. Non voglio camminare accanto ai loro letti. Torno nella mia stanza di guardia, mi addormento. Comincio a scrivere di loro.

Mi chiedo se sono spettatore delle loro voci o tutore delle loro furie. Se sono un veggente passivo o un poliziotto attivo. Chi è veggente spalanca porte, intravede misteri, aggiunge disordini. Chi è poliziotto tappa bocche, lega corpi agitati, intima ordine. Ma non si è mai una cosa soltanto. Si è sempre altro da sé. C’è un’isola borderline tra l’essere troppo liberi o troppo prigionieri, una zona della mente dove avere visioni non significa necessariamente perdere la ragione, un luogo dove, nell’attimo in cui tutto crolla, si sostituiscono a quella distruzione dei paesaggi immaginati ma reali.

 

 

Oscillare senza cadere

Quando ascolto un ‘matto’ delirare, ogni sistema logico diventa instabile, come se io e lui fossimo su una passerella oscillante. Ma, nell’attimo stesso in cui io e lui ci mettiamo a parlare tutto ritorna stabile e c’è una via di scampo. Io vacillo e lui sprofonda. Ma, vedendomi vacillare con lui, sprofonda di meno. È felice che io barcolli, che sia simile a lui. Sa che io, essendo psichiatra, non sprofonderò. Sa che lui, in quanto matto, può farlo. Ma sente che, se ha una possibilità di salvarsi, deve imitare la mia strategia. Oscillare senza cadere.

Da psichiatra verifico nelle furie della follia la mancanza di una forma. Da scrittore sento nella forma dell’opera la fine delle furie. Due verità opposte: il destino deforme del ‘matto’. Ha voluto sciogliersi dalla forma che lo imprigionava e ha fallito. Mi carico di quel fallimento per osservare nodi che appartengono a me e a lui. Conquisto una distanza che è già reciproca via di salvezza e di avvicinamento al mondo parallelo che, da quei nodi, inventa nuovi universi.

Se il mio compito come lettore e interprete della malattia, è decifrarla e trasformarla in qualcosa di altro dal sintomo, il mio compito come scrittore è lavorare su una scrittura che renda impossibile e altro il linguaggio. Chi, come lo psicotico, non ha niente da perdere perché crede di possedere tutto, ha come suo doppio l’artista che non ha niente da perdere perché non ha e non vuole avere nulla.

 

 

Racconti di fate

Durante il mio turno di guardia sento sillabe ripetute, urla stereotipate, cantilene. Niente di drammatico o di poetico. Chi soffre non ha nessuna voglia di rappresentare la sua sofferenza e se ne libera o con una nenia o con un grido. Bisogna rispettarlo. Conosco un ex ingegnere nucleare che, nelle fasi deliranti, si crede un Agente dei Servizi Segreti. È un uomo intelligente, consapevole della sua malattia. In un recente colloquio mi dice di aver scritto dei racconti e mi invita ad entrare nel suo sito web. Lo faccio, incuriosito, sperando di trovarvi qualche suggestiva allucinazione. Invece leggo raccontini che parlano di bambini, fiori, animali, regali natalizi. Cosucce graziose. Per un attimo sorrido, provando pena per quel prodotto mediocre, ma poi me ne vergogno. Un uomo come lui, ossessivamente consapevole della sua sofferenza psichica, non ha nessuna voglia di rappresentarla – e quindi di riviverla – nei suoi racconti. Che invece, nel tentativo di respingerla ai margini dell’io, simula lo stato di grazia di un paradiso infantile. Senza valore per chi frequenta le bellezze della letteratura, ma essenziale per chi percepisce la scrittura come evento psichico. Così, per disinnescare le loro follie violente, Robert Walser scriveva racconti ossequiosi e gentili e Friedrich Hölderlin firmava con il nome di Scardanelli tranquille quartine paesistiche. Solo chi non sta troppo male può ancora parlare del suo inferno. Chi è sprofondato nei sintomi fino al collo ha bisogno di sollievi semplici – musichette, isole dei famosi, racconti di fate. Ricordiamo che Proust non sdegnava le canzoni mediocri, suscettibili di scatenare imprevedibili madeleines.

 

 

Mulini a vento

Un giorno cercai di persuadere un uomo di trentasei anni, in preda a un delirio megalomanico in cui credeva di essere Gesù, Budda o Gandhi, a raccontarmi ciò che provava, a scriverne su un taccuino. Lui mi guardò con sospetto, poi disse: Io non scrivo, io sono. Aveva già tracciato, per i giorni a venire, il suo programma: dimostrare di avere ragione contro chi gliela negava, e pagare il prezzo di questa lotta. Il segno più evidente della psicosi è che ogni parola pronunciata non appartiene alla sfera del linguaggio, e tantomeno all’universo della metafora, ma è verità rivelata. Chi si sente messaggero di questa verità guarderà con sospetto sia i funzionari di potere – poliziotti e psichiatri – che lo invitano a tradirsi, sia i compagni di follia che enunciano verità diverse dalla sua. L’uomo di cui parlo ha sofferto per mesi di un’infezione alla gamba sinistra che solo per caso non si è trasformata in cancrena. Per mesi, pur zoppicando, ha negato la realtà di quella ferita. Non lo considerava un problema. Lo avrebbe risolto quando avesse voluto. Poi il dolore è cresciuto; lo ha spinto, suo malgrado, a farsi curare.

Il ‘matto’ intraprende sempre una lotta ostinata contro le convenzioni della sofferenza, del pensiero, della percezione: una lotta grandiosa, destinata al fallimento. L’esagerazione, maniacale e donchisciottesca, è comune, in campi diversi ma contigui, anche all’arte. Se non si esagera lottando con i mulini a vento contro una uniforme pianura noiosa, se non si vive fino in fondo quell’“energia dislocante della poesia” di cui parla René Char, accettare le regole della vita e del linguaggio è solo un debole atto di sottomissione a codici già scritti, una sconfitta umiliante. La speranza nasce quando – parzialmente sani – cerchiamo di sfruttare, tra affanno e pazienza, l’energia vorticosa dei mulini.

 

 

Guarigione, scrittura

Francis Ponge scriveva: “Gli uccelli di Braque sono molto più pesanti dell’aria, come sono realmente gli uccelli, ma volano meglio di tutti gli altri perché, come i veri uccelli, partono dal suolo, ridiscendono a nutrirsene e ripartono in volo”. La metafora di Ponge è perfetta per l’arte della scrittura ma anche per la fatica di guarire. Ridiscendere, nutrirsi e ripartire in volo, mi ricorda il compito dei traduttori e degli interpreti, che si confrontano con i dolori e con le opere degli altri. Io, non avendo una vita che potessi dire mia, sono diventato ventriloquo e interprete di vite e follie altrui nelle quali rispecchiarmi e delirare.

Lo chiedo spesso ai miei matti: abbiate cura del vostro delirio. Ma hanno paura. Non sanno orientarsi. Dicono che devono vivere con cautela o saranno travolti dalle loro allucinazioni, confusi, ricoverati, fuori dal mondo, senza diritti. Solo pochi di loro, come il postino Ferdinand Cheval, a Hauterive, hanno rappresentato con ferrea pazienza e ostinata chiarezza il loro delirio costruendo, giorno dopo giorno, pietra dopo pietra, uno stregante e onirico sacrario come il Palais Idéal. Se il folle descritto da Elias Canetti presenta un’atrofia della metamorfosi, l’artista, al contrario, soffre un’ipertrofia della metamorfosi. Coltiva la sua ossessione.

 

 

Buio in sala

Se dovessi scegliere un’arte fra le altre, sceglierei il cinema. Il cinema offre lo scenario di una riorganizzazione del mondo attraverso forme in movimento. Lo spettatore, immerso nel buio della sala, si fa invadere dalle immagini che scorrono sullo schermo. Stare nel buio e poter vedere solo quelle immagini nella tela bianca non è il simbolo dell’informe oscurità intrauterina e amniotica, ma la condizione privilegiata di spettatore delle visioni che il regista-demiurgo inocula in lui, grazie al suo stato di temporanea passività. Lo spettatore, nell’oscurità della sala, è in una condizione diversa dal lettore di libri o dallo spettatore di quadri, perché non può distogliersi dall’incantamento che emana dalle immagini dello schermo se non chiudendo gli occhi o tappandosi le orecchie.

Come il folle, a causa delle sue paure e della sua intransigenza, si autonomina demiurgo e organizza in prima persona la realtàdegli eventi e la direzione degli affetti, cosìil regista, stimolato dalle proprie visioni, può costruire un mondo parallelo che si impone allo spettatore non appena nella sala si fa buio. Quando una storia si trasforma in fatto ottico, l’attenzione è assoluta come quando sprofondiamo in un sogno. “Ogni uomo – scrive Bion – deve poter sognare un’esperienza proprio mentre gli capita, sia nel sonno che da sveglio”.

 

 

Questa non è la mia casa

Turno di guardia. Consulenza in Medicina. Reparto.

L seduta sulla sedia bianca.

Non ècasa mia, voglio stare a casa, con mio marito.

Suo marito è morto, signora.

Questa èuna sedia bianca, un letto bianco. Non conosco questa sedia. Non conosco questo letto. Voglio tornare a casa.

L grida per ore. Sono le due di notte. Fuori la luce del corridoio è bluastra. Si addormenta e si sveglia, mi racconta un sogno.

Un ramo pieno di limoni, sull’erba del prato. Una luce mite, quasi estiva. Il sole è nero, basso. Vicinissimo alla terra.

Ride.

Forse è immerso nell’acqua. Io cosa ne so? Una sedia bianca, un letto bianco! Non è la mia casa, non è la mia casa.

Si calma, accetta la terapia, smette di gridare. Scendo le scale del reparto. Le tre di notte. Suona il cellulare. Mi richiamano dal Pronto Soccorso. Un uomo di sessant’anni. Dicono farfugli, deliri. Vado. A me sembra tranquillo, felice di parlare. Dice che ascolta solo musica di Frescobaldi, sempre al clavicembalo.

Ma l’organo non va, non suona bene nella mia casa, è piccola, un buco, la vedesse. Vivaldi è superficiale, Bach sontuoso, ma la leggiadria della scuola francese! Couperin!

Vuole un farmaco per l’ansia?

Per favore, sì.

Prescrivo quindici gocce di En, mi allontano. Ha un sussulto di paura, mi implora di tornare. Non vada via, dobbiamo parlare di musica. Non mi lasci qui! Torno, gli ripeto. Ora è lui a sorridere, mi stringe la mano, sorride ancora.

 

 

Dove ho messo i rifugi

Che il genere umano esploda pure, ma lei mi è simpatico! Le dirò dove ho messo i rifugi.

L parla a lungo, sessant’anni, si muove con ansia sulla sedia.

Io dipingo perchémi sento in pericolo, sussurra, le foreste che disegno sulla carta, le foreste che bruciano sul foglio, mi salveranno dall’incendio di domani, nessuno mi regala un accendino, sbattono le nocche alle porte, le sbattono forte, forte, vogliono uccidermi.

Si calmi, come si chiama?

Non risponde. Parla del timbro violento delle voci, delle materie che gli rimbombano come acciaio nella testa. Lo lascio, prescrivo una flebo di Valium. Salgo verso il reparto, faccio cinque passi, mi richiamano, torno in Pronto. Vedo un ragazzo della Costa d’Avorio, immobile, sulla sedia bianca.

Sto fermo per salvare i morti del mio paese, nome per nome: resterò fermo tre minuti per ogni uomo scomparso e svolgerò per intero il mio compito, dovessi morirci.

Ma servirà?

Servirà.

Allora venga su da me: potràrestare immobile quanto vuole.

Sì.

Ordino il ricovero. Prima mi fissa con odio, poi acconsente. Salgo stanco nella stanza di guardia. Mi tolgo le scarpe, mi addormento di colpo.

 

 

Marco Ercolani (Genova, 1954). Tra i suoi pensieri dominanti: la scrittura apocrifa, la poesia contemporanea e il nodo arte/follia. Pubblica, per la narrativa: Col favore delle tenebre, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte e A schermo nero. Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura e L’opera non perfetta. In coppia con Lucetta Frisa scrive L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane e Sento le voci. Nel 2010 pubblica il suo primo libro di versi Il diritto di essere opachi.