Andrea Raos, da “Le api migratori”, Liquid Oèdipus 2007, con una nota di Rosa Pierno

Un libro congegnato, quello di Andrea Raos “Le api migratori”, per inglobare anche elementi eterogenei come l’immagine ( nei disegni di Mattia Paganelli), l’articolazione spaziale della pagina, sempre variegata e sorprendente (la quale invita a una costante dislocazione il lettore rispetto alla pagina) e il suono, elemento costitutivo della poesia, che viene però qui enfatizzato non solo da un’attenta autonoma valorizzazione dello stesso, ma potenziato, appunto, da una stimolazione percettiva del lettore attraverso la compresenza di tutti gli altri stimoli sensoriali, contemporaneamente attivi. Il volume, a questo punto, se è epico racconto - migrazione delle api equivalente alla migrazione degli atomi di lucreziana memoria e che avendo come soggetto uno sciame di api riecheggia anche le favole di Esopo – è anche libro-enciclopedia. Il racconto si snoda per metafore e allitterazioni, per progressioni continue. Infatti, avanza includendo intere porzioni della rete semantica (differenti ambiti linguistici) e letteraria (riferimenti ai classici): “tirata, tratta, stretta, terra, terramara / erra, rena, nera, nero, era” e “mentre esplode, dalla fiamma, lo sciame delle api trasformate, irrompe al mondo”. E che si tratti di favola morale: ““ma ne ho compiuto il male, che ricade, - ne ho toccata / nell’intimo natura, ho fatto il male.” / si dibatte, tenta, mentre invano cede” è presto confermato. Non si vuole in queste poche righe riassumere la posizione di rifiuto di Raos degli aspetti osceni della vita, preme piuttosto porre in nuce gli aspetti linguistici, sperimentali che agiscono nell’opera come distanziatori rispetto a un traguardo (la forma-libro) non raggiungibile in maniera compiuta e, altro aspetto non secondario, l’indefessa spola tra l’io e lo sciame in quanto l’introspezione soggettiva non rivela con incontestabile chiarezza il discrimine tra l’io e la collettività poiché entrambi presi in un movimento vorticante che tende a moltiplicare lo stesso soggetto percipiente.

 

 

Fuori dal laboratorio

 

La terra esplodeva, ancora una volta. Sono milioni di millenni

in piena, per completa frantumazione

si riversano per terra – esplode, esplosa:

“nella dolcezza, nell’amore,

 

né la dolcezza né l’amore

stanno – non sopporta più niente,

la vita, non sopporta niente”

“venite, attraversiamo” – traversando

 

“volo d’animali,

l’immenso il più disteso

non ho mai visto un altro fiume” – con l’amore

come l’acqua, com’è acqua,

 

colma di leggera, come fuga

a malapena, a stento volo, che non vuole,

che non prende il volo. Sprofondano dentro la terra,

cascate di roccia che la roccia, voragine che dentro la voragine,

 

da quella stretta che, dentro, alleva,

morso dalla morsa della pietra:

“trasvolando che sento, che cadrò”.

La roccia si solleva, esplode il suolo,

 

si fa lava, bolle, folle:

è trasvolando che cadendo, sciame dopo sciame,

tutto passa.

Ed ora che passato

 

passava tutto, intero, per intero,

e su ciò che diventa, si avventa:

l’orso piccolo strappato, che confuso, dalla madre,

alla madre, ombra,

 

l’orso da poco nato che spaventa

ancora il mondo (che da adulti rende muti senza spaventare, è lì e

basta, è cosa che succede, uccide),

che zampetta e uggiola un po’ debole, un po’ mite – è via

dalla madre

ombra, d’ombra

“ti ho sognata ma eri già morta,

ti ho sognata ma non eri niente, un agitare

di follicoli, estinzioni, di parentesi”

 

cosa, oh cosa di sangue e di niente, ad annerire ora,

cosa significa restare in vita?

che cosa strazia ora questa

mano, mano che non tiene? questa gola?

 

capivi che ne usciva suono, nel frastuono,

non perché la vibrazione arriva,

non vedi il battere

e ribattere laringe, strepito –

 

è il corpo intero che si chiude esplode,

ricontrae, riesplode, nel riaccelerare che il respiro,

per respirare, spira, che i polmoni,

nel vibrare, emettono, riemettere

 

con tutta la carne che li chiude

mentre, ancora (e come morde, come tremito, che trema)

e nuovamente, intanto,

affollano il nascere i morenti, si affollano, al disnascere, smorenti

 

- l’orso piccolo, già morto, muore ancora,

cosa nasce?

l’ape pazza che attraversa, il corpo,

cosa non nasce?

 

sono soli, ora, il vuoto, accerchia l’erba,

verso cui, già piega, verso dove

la terra serba il pianto che le spetta,

cosa nasce e non nasce?

 

allontana, l’allontanarsi altrove, il numero

di api-sciame, innumerevole –

cosa né nasce né non nasce?

 

“Non posso, pure, non passare, vero?”

 

 

Andrea Raos. Nato nel 1968, ha esordito con la raccolta Discendere il fiume calmo nel Quinto quaderno italiano diretto da Franco Buffoni (Crocetti, Milano 1996). È presente nel progetto ákusma. Forme della poesia contemporanea, (Metauro, Fossombrone 2000). Ha pubblicato Aspettami, dice. Poesie 1992-2002 (Pieraldo, Roma 2003) e Luna velata (cipM - les Comptoirs de la Nouvelle B.S., Marsiglia 2003). Ha curato l’antologia bilingue di poesia contemporanea italo-giapponese Chijô no utagoe - Il coro temporaneo (Shichôsha, Tokyo 2001). Presente nel VI Quaderno della rivista on line Poesia da fare di Biagio Cepollaro. Con Andrea Inglese ha curato Azioni poetiche. Nouveaux poètes italiens, in Action poétique, 177, settembre 2003 e Le macchine liriche. Sei poeti francesi della contemporaneità, in Nuovi Argomenti, dicembre 2005. È membro di Akusma e di Nazione Indiana. Suoi testi sono apparsi sull’antologia Il presente della poesia italiana a cura di Stefano Salvi e Carlo Dentali (LietoColle, 2006).