Marica Larocchi, da “Solstizio in cortile”, Puntoacapo 2009, con una nota di Rosa Pierno

Che una descrizione così sonora e raffinata possa avere ragione anche di un argomento triviale, o semplicemente banale, del tutto insignificante come la visione di un camionista in panne visto per qualche secondo mentre si percorre un’autostrada, riporta immediatamente l’attenzione sulla pura forma, come in un esperimento che voglia isolare solo alcuni elementi all’interno del fenomeno poetico, dove la visione sia strumento dichiarato d’indagine che attesti di un atto poetico che fonda la propria certezza quasi in una ripresa di cartesiana memoria. Se a questo si aggiunge un dichiarato riferimento al segno, il quale è innestato nel linguaggio utilizzato da Marica Larocchi come pietra preziosa che nel linguaggio non si dissolve, ma funge da elemento aggregatore, elemento boa, allora siamo di fronte a una dichiarazione di poetica talmente limpida che il suo significato a questo punto non può che risiedere nel flusso poetico che si dispiega ininterrottamente e imperiosamente richiamando la nostra attenzione al senso sonoro dell’ascolto: “bensì, nel vario / itinerario imposto / dal nume locale, segni / stinti d’ascesi / o parapetti d’anabasi / indiscussa”. E che tutto diventi segno sotto lo sguardo di Larocchi indica la metamorfosi che ha luogo sul foglio: “Ed ora / non ti avvedi del / timbro ammalorato / su questa cute / di voli tatuati”. Suono e senso non si confondono, né si uniscono, ma coesistono nella loro doppia esistenza, rubando continuamente l’attenzione del lettore, imponendo un’autonomia che non può essere dissolta, nemmeno nella considerazione di un ordine superiore. Pare che nessun residuo resti, che realtà, per quanto piatta, insignificante, forata, discontinua sia, venga senza sosta e immancabilmente sottoposta a un processo attraverso cui debba assumere necessariamente un senso. Di questa immaginifica visione, incantatrice pagina, colma di sonorità e di senso come può esserlo una fonte da cui sgorghi continuamente una rapente immagine per gli occhi, Marica Larocchi è straordinaria fautrice.

 

 

Solstizio in cortile

 

1

A lungo ho sperato

che fosse un volo

lasco e poderoso

sopra l’immenso

brulichio di larve.

Invece è questo

tuffo molle

di starna, d’anatra

muta o di svasso

in parata dentro

i crepacci della memoria;

e che riemerge adagio

con l’infanzia nel becco.

 

2

Pensieri a sciami

sono alla cova

tra i licci di

un’antica fame;

già pronti a divorare

accenti e toni.

Oggi mi accoglie

soltanto la cinica

risacca d’alghe

riepilogative,

se l’oracolo

mentitore

impone ai presagi

di sprangarmi il cielo.

Restano poche

spine nel crampo

della luce.

 

3

Ecco la poiana

dei vaticini

appesa al ramo

in cortile,

avida persino

di un’indagine troppo

fatale.

Ma sul collo scalzo

dei tetti la sua

invettiva inciampa

nel nido degli incontri

sonnambuli che lo

spiedo della mente

infilza senza colpo

ferire.

 

 

da La linea della vita

 

2

Né ascisse né ordinate

per l’insolita adunata

dei segni, ma solo

un rimpianto che albeggia

adagio dall’orlo

un po’ scheggiato

della guida

quando, scissa

dai suoi tutori, anche

l’angoscia cade

nel suo astuccio

di trepide astine.

 

6

C’è nell’inchino

esperto della vela

la presunzione di approdi

e bonacce;

ma è sempre una

folata estrema a

declinare nel taglio

scogli ed ormeggi.

Perciò ne conservo

la rotta collaudata:

fulva e sottile

linea della vita.

 

 

Marica Larocchi, lombarda ma di madre slovena, è poetessa, narratrice, traduttrice e saggista. Tra le sue raccolte poetiche: Lingua dolente (Milano 1980), Fato (Milano 1987), L’oro e il cobalto (Bologna 2001), Le api di Aristeo (Bologna 2006); tra le opere in prosa, Il suono del senso (Verona 2000), Carabà (Lecce 2000), Rimbaud, Un racconto (Lecce 2005), Il tavolo di lettura (Lecce 2007), Luogo e formula (Lecce 2009); ha tradotto Rimbaud, Flaminien, Radiguet, Jouve e curato un’Antologia dei poeti parnassiani (Oscar Mondadori, 1996). Vive a Monza.