Cristina Annino, da “Magnificat. Poesie 1969-2009”, Puntoacapo 2009, con una nota di Rosa Pierno

Versione stampabilePDF version

Non è in una trentina di righe che si può parlare di un libro che raccoglie 40 anni di poesie, qual è l’antologia di Cristina Annino “Magnificat. Poesie 1969-2009” e, dunque, va da sé che soltanto si può riportare qualche nota che abbia più fortemente colpito durante la lettura: anzitutto la registrazione di un’intelligenza tanto lucida quanto sarcastica, ironica quel tanto che serva a puntualizzare che la responsabilità è di come stanno le cose, delle persone che si sono incontrate e si sono amate. Da qui la catastrofe, poiché ciò che è perfetto diviene corrotto, retrocede contro un melmoso fondale di fango, mentre il soggetto della poesia è costretto almeno al reclamo della soddisfazione dei bisogni più elementari, anzi ancora più aggressivamente pretesi. Non si rintracci la mancanza di normalità o di equilibrio nell’autrice, ma nelle relazioni che si sono venute a instaurare con l’altro: lo si evince dal fatto che la scrittura è di quelle che testimoniano di una sensibilissima capacità di cogliere sentimenti e motivazioni sia in sé che nell’altro e di denunciare lo scarto dall’equilibrio: “Ogni giorno, /farlo per farlo, si / spara nel circo del petto / a nobile distanza. Poi perderà. Sia come / sia, salutiamola con riserbo. Gli / stan fumando il mondo dal / naso” a riprova della sua consapevolezza e della sua partecipazione a un gioco di cui non può stabilire le regole. E, allo stesso modo, quel passaggio dal femminile al maschile per parlare di sé sembra più una capacità di assolvere a più ruoli, di saper giocare in più sembianti, in poche parole di essere il giocatore che ha sempre più assi nella manica di quelli che il caso le fa giocare, e a cui, comunque, deve sottostare. Questa capacità metamorfica, questa potenza nella lettura del reale, è anche l’aspetto forse più prezioso che la stessa Annino ravvisa non solo in sé, ma anche negli altri ( e quale festa quando ciò avviene). D’altronde, ci pare che sia saldissima la presa formale delle sue poesie: l’abilità di partire da un’immagine istintiva, appena un la, un accordo di partenza, per sviscerarla fino nelle sue interiora più riposte e sorprendenti. Reale, in fondo, può ben poco di fronte a una simile artefice!

 

 

da Ritratto di un amico paziente (Gabrieli, 1977)

 

Ritratto per Casorati

Come Gustav Mahler che ascolti

e ne invidi la morte, i compimenti,

io dopo ti vedo

nostalgico, lento

non più uomo né donna,

importa

quel solo giallo acuto delle labbra,

che ancora lasci in Mahler la ragione

parlando fumando senza volgarità.

La vena arrossata

tra i capelli gira

indietro come un laccio.

La gran pena di tutto il mondo

per te

è questi atti, suoni, persino

muori,

allungando il tuo braccio

arancione sulla sedia.

 

 

da L’udito cronico (Einaudi, 1984)

 

L’udito cronico

Le poesie d’amore le do

in appalto ai droghieri. Io

inseguo pensieri su cui

casco, è vero, in rime toniche.

Anche a me succede; ma in genere,

è un fatto, sto in piedi.

Ed ho

un bell’udito cronico

per la vita, o meglio

per la testa impazzita

dell’uomo che ragiona, e gli sale

accanto in due, divisa

fino all’occhio glaciale.

 

 

da Madrid (Corpo 10,1987)

 

Tutte le conseguenze sono state fatte

Ormai l’accetto da molto tempo. Lei

è scesa davanti a me, mattone dopo mattone come una

casa, dall’autobus bella e quale un evento

eccezionalmente pesante. Chi fa

per me pensandomi, vale a dire decidendomi, come

dire il destino o gli altri sulla mia testa, hanno

la lunghezza misurabile e il clima breve di quel pezzo di strada. Mai

ho il senso della fine quanto percorrendola. Potrei

stare senza: nel sonno imparo cose del mio

corpo non facendo niente, e mezzo mondo èsotto

il sole stupido. Ma le

faremo alla fine lo stesso le

scale, l’acquaio, la fame, le stanze. Con calma. E che

bontà almeno non parlare mai di Ritsos.

 

 

da Magnificat (inediti)

 

***

Parlando

evaporava, s’aggiustò la

frase su

qualche organo; cresceva

così l’albero. E’ il triste

spirito che

l’ossessiona, col mento

liscio sopra i binari. Quel

che non

vede: mangiare sé

senza far ridere, per

esempio, era

quello. Tirar via la

creatura da sé, viva

ancora, e con furia

strafusa mandarla lei

stessa al macello.

 

Magnificat

Tinto fino alle gambe d’un

combusto odore di gas, l’occhio

sinistro rigido di pensiero

mescolato a formiche.

E’ tanto

sfatto di sé, pieno, vuoto

stanco con

spartiti nello spazio

minimo. Vorrebbe

farla finita, ma prende in

mano- biglietto d’ingresso

o tessera del pane- il

talento che ha e lo

mostra nell’intento

carnivoro di mangiare. Mangia.

Ché

di più credendo, con

barbara fedeltà al

l’Altezza,

qualità dei reni o

massa musicale, a quanti

ottoni ancora lo

percuotono dentro come

tegami di casa sua. Con tale

elastica facoltà da

pompiere senza

pompa, anche non volendo

lo fa (ma chi tira le

redini qui?) vola lui su con

l’asta, poi entra- nota per

nota- nel

magnificat stato della

mente. Lo vede. Si

scuote insieme ogni

stanza, suola in su, che

nuota senza rete anche

l’acqua. Tale

fascia sonora, ossessione! la

ferma inutilmente per un

po’ con le mani. Poi indietro,

lui casca.

 

 

Cristina Annino è nata ad Arezzo vive e lavora a Roma. Si laurea in Lettere moderne a Firenze, dove frequenta i caffè letterari Pavskoski e il caffè San Marco sede allora dei giovani del Gruppo 70. Entra in contatto con Franco Fortini, Giovanni Roboni, Elio Pagliarani e altri. Esordisce nel 1969 pubblicando da allora 10 raccolte poetiche e un romanzo, oltre a numerose plaquette, tradotte anche all’estero. È presente in numerose antologie, sia italiane che straniere. Collabora con diverse riviste in Italia e all’estero soprattutto tedesche, spagnole, messicane. Da alcuni anni si dedica anche alla pittura ed ha al suo attivo mostre personali e collettive. Fa parte dell’agenzia d’arte spagnola Artelista.