Patmos (2014) – Emmanuel Carrère


Un’ascesi mondana, e un’ascesa a Patmos, al monastero di San Giovanni Teologo. Una sequenza iniziale sul mare intorno all’isola, in traghetto, prima di arrivarvi. Celebrità monastiche, cocktail di anziane dame policrome che hanno conosciuto i ricordi di Dalmazio, dell’Impero mentre moriva. I signori possono accomodarsi, le mura sono bianche, la vista è splendida. Di questo film si è ospiti naturali. Stabilisce per noi parentele e filigrane di Albertine, fa di noi una fuga ed è lui stesso a fuggire da noi. A pochi fotogrammi di distanza, una festa, luci sul mare, qualcuno lascia suonare La Pianista, una signora impeccabile e guantata che entra in un peep-show e raccoglie e annusa un fazzoletto inseminato.

Girato come un documentario, Patmos, di Emmanuel Carrère è un movimento centrifugo di elementi biografici manipolati con grande abilità. Proprietario di una casa sull’isola, lo scrittore francese dirige la propria architetturale visione del promontorio e della vita eremitica. Vara un documentario di finzione, dove lui stesso più che recitare è in scena, abita il film, perché lui abita lì, in quella casa così simile all’omaggio di pietra che arrossa la punta del Massullo, la villa caprese di Malaparte. Ed è intorno alla sua casa greca e dentro le ville povere abitate dal mondo in un preciso momento di agosto, che scopriamo Dio. Nato dai materiali accumulati per un documentario sul monastero dell’isola, sull’ortodossia di croci e d’oro dell’estremo Egeo, il film conserva innumerevoli tracce di mosaico, tessere magnifiche, di quell’intento iniziale. Conosce i luoghi di preghiera e li percorre, ma è indifferente al gusto apocalittico che vende bene l’isola. Una severità piena di sole ne intaglia la fotografia. Per quella via in lamina d’oro si veste e celebra nel film una storia eccentrica, un elemento che altera il profilo del documentario spoglio. Ma del documentario conserva il mondo e in quelle pieghe si diverte a modellare abiti di taglio perfetto. Il coniugio è presto celebrato tra le feste liturgiche e la mondanità sacra, ma non è invadente, non è manifesto, è piuttosto casto. Ci si accorge appena che dall’ora del lavoro in monastero, si scenda la sera in giardini che ospitano il turismo celebre. Una conduttrice della televisione italiana o il re di Grecia, legittimo per sola discendenza, in legami di parentela con l’ultimo Luigi decapitato di Francia. Un lontano parente di cui parlare con affettuosa apprensione. Michel de Grece recitato par lui même, sodomizza il pubblico con la sua scatologia universale. Narra di come il mondo sia diviso e divisibile in tre ordini distinti, e di Patmos ne fa il modello miniato. Al vertice dei pudori e di tutti gli onori vivono les gens, incastonate nella grazia delle dimore di Chora, sotto le mura monastiche. Essi sono re e ricordi dei re, alcuni sono indicati invece come discendenze di lontane divinità, familiari al turchese delle mura di Babilonia. Poi vengono gli inglesi, subito dopo dio. Patrimoni non intaccati dalla perdita della schiavitù, i cui figli vivono di spiagge, chiari come la sabbia. Subito dopo gl’inglesi viene il pop, le celebrità inattuali, vecchie copertine, artisti e galleristi. Non digradanti ecco poi le mansioni del sesso d’alto lignaggio, la prostituzione museale e monumentale di gens raccolta lì da tutto il mondo. Riciclaggio e redenzione, liquidi indiscutibili e sempre accolti della finanza giovane. Su tutti il vero privilegio è la genealogia. Il secondo ordine è già gleba, costituito com’è da non-gens, da chi sostiene tutte le attività del creato. Michel de Grece dice di averla vista all’opera in un libro d’ore di stupenda fattura. Come tra la nobiltà e il popolo vi è il nulla, così il n’y a rien tra questi primi due ordini estivi, e in questo nulla solo il turista sopravvive, senza nascita, senza nome. La cosa più preoccupante, avverte il principe, è che tra i turisti ci sia chi aspiri a far parte della gens, una devianza che meriterebbe il carcere.

Al centro di questa come di tutte le conversazioni c’è Carrère, si parla con lui, e attraverso lui godiamo di una catabasi mondana, divertente, altera, perfettamente falsa, impassibilmente vera. Tra gli invitati, senza distrarci troppo, un giovane uomo dichiara di essere un rifugiato politico, di aver ucciso Berlusconi; non ha nemmeno trent’anni. Parla di un colpo di pistola, di azalee. Poi ci sono le bellezze, i più giovani sono ungheresi, armeni, così perfetti da sembrare appartenere a razze estinte, a ordini di templi mai riportati alla luce. Si prostituiscono, probabilmente. La tonalità dei gesti, il ballo quasi immobile e l’accoglienza dimostrata alle parole di alcuni anziani, e in alcuni casi, la posizione inginocchiata o semidistesa si fanno notare in mezzo agli alberi. Pisanello, una sant’Anastasia, qualcuno sta per partire, castelli traforati su in alto.

E in alto la vita dei monaci scuri, il sandalo e la preghiera. Non stupitevi di questa difficile amalgama, il film non soffre schizofrenie, anzi gode di questa studiata divaricazione e si dimostra molto prensile in entrambe le ricostruzioni, archeologica l’una quanto l’altra. Carrère prega con loro e si fa tramite dei due set, presiede alle duplici cerimonie, confonde i suoi ospiti e non impressiona gli eremiti, che lo lasciano stare tra loro come si fa con le mosche. E lui ricambia, per lo più non inventando storie; finge di ricordare quello che gli è stato riferito, di mettere insieme dei fatti sparsi, di circostanziarli in una forma che ha il gusto della conversazione, opposta e affine al silenzio suggerito dalla regola. Ma quello che conta è altro, il vero centro di tutto è il cuore di un uomo solo, il cuore dell’igumeno. Non uno sconvolgimento ma costantemente una meditazione, una meditazione su qualcosa d’invisibile al cinema. Una casistica minuta e una vasta teologia dell’amore; il profilo di un uomo invecchiato ma imponente, dalla barba in cui nidificano le Scritture, dalle labbra di vino. Il monaco igumeno dell’isola monastica ama e ama una donna, risorsa e ispirazione carnale. Non conosciamo il monaco, né ci viene presentato bene da Carrère, ma conosciamo lentamente il suo tormento. Non importa che egli ami, non è la tentazione il suo cardine, non il discrimine della carne e dei corpi, il tremore del film è la febbre ferma dell’amore che non può riaversi, non può riavere se stesso e non può cibarsi d’altro. L’abate ortodosso sa che nemmeno in confessione potrà rivelare ad altri il suo segreto. Sa che cedervi al pensiero è già colpa, eppure l’incessante grazia del film vuole altro, allude ad altro. In immagini e gradienti di silenzio è in questa natura di confessione impossibile dell’amore che è ospitato il materiale ottico ispezionato, allocato in quello scarto come nella vera cava dell’Apocalisse. Un incesto dell’animo con se stesso. Il monaco può accettare di amare, ma fuori di sé non può rendere nulla di quest’amore, può aspettare che passi. Restituire quest’attesa in pochi gesti, pochi volumi di corpi nello spazio, restituire la pace che può esserci sulla pelle segnata di una mano, sondare la preghiera come esorcismo contro l’amore, vedere quella condizione di sudore, questo conta nella singolarità dello sforzo filmato.

Conta meno che l’igumeno venga ritrovato morto tra le mura della sua cella, morto appena prima o appena dopo aver ricevuto la sua donna in confessione. Lascerò che seguiate da voi il finale, dopo la visione, a voi la scelta tra le due ipotesi che resteranno ancora in piedi: il suicidio prima che avvenisse la confessione o l’omicidio successivo.