Prima pagina: Cristiana Panella presenta e traduce Christophe Manon; audio animato dell’autore

Prima pagina: Cristiana Panella presenta e traduce « Segni dei tempi » di Christophe Manon ; audio animato dell’Autore

 

Il testo di Christophe Manon qui proposto in traduzione, tra i cinque testi che compongono « Signes des temps », fa parte del progetto corale di prosa, musica e immagine, « Poèmes pour les temps présents », ospitato dal laboratorio di sperimentazione Ciclic. l’epifania, attraverso il frammento, di una memoria sociale che livella i corpi umani, animali, gli oggetti, i quattro elementi su uno stesso orizzonte ; che ne fa eventi equivalenti inscritti in un tempo dilatato e ciclico. le sequenze selezionate per i cinque Poèmes sono state attinte dall’archivio cinematografico di Ciclic : marine d’infanzia ; istantanee di pelle umana e animale partorite da una stessa madre dai nomi diversi ; fratellanza per dono di carni scoperte. loro malgrado, a loro insaputa. sequenze estranee e lontane tra loro, smagliate e cucite da un video all’altro a partire, in alcuni casi, da uno stesso filmato, dove lo spaesamento dato dalla scomposizione materiale della immagini crea nuove biografie, inverte intenzioni e valori, cambia il finale, secondo un principio di trasmissione che privilegia l’istante più che la narrazione. esistenze che scorrono nei gesti ripetuti : attese nascoste, regole, file, accadimenti crudi, gioie pudiche ancorate a piccoli mondi antichi. dolori lavici svelati e decodificati da una generazione all’altra, da una classe sociale all’altra, attraverso lo specchio della sofferenza altrui. ognuno ha i codici del suo sconosciuto in virtù della semplice condivisione della comune presenza al mondo, in uno svelamento reciproco di impotenza ma anche di potenza per istinto di desiderio, per memoria ostinata. tutto brucia, tutto è sacrificio di luce e fuoco. e là dove gli umani passano e scompaiono gli animali, presenze costanti dei cinque Poèmes, vegliano da magnifiche creature guardiane ; attraversano indenni il giorno e la notte.

La cifra poetica di Christophe Manon rispecchia lo SCORRIMENTO aleatorio di questa cucitura cinematografica. « Non mi interessano le storie […]. Quello che mi interessa è la lingua, la forma che si utilizza per esprimersi, per rendere manifesto, perché la lingua rivela una visione del mondo […], rendere conto del momento quando questo sfugge. Tentare di dire con le parole il momento in cui le parole vengono a mancare» (Johan Faerber intervista Christophe Manon, Diacritik, 29 gennaio 2019, trad. C. Panella). così come per il testo, la scelta dell’immagine per Manon non dipende dalla qualità o dal contenuto ma dalla capacità di portare una rivelazione, di suscitare uno sbigottimento, subito inghiottito dal lampo ordinario seguente. la vita è una successione allucinata, ossia presa-nella-luce ; un « canto brutale » e magmatico di enfiamenti. una preghiera laica alla dignità della rovina insita nella nascita, per eredità. una contemporaneità, quella di Manon, quella della poesia, che non è mai attuale. non è una sequenza pieghevole di atti ma un’evanescenza di gesti soli, precari e compiuti; rimasti al freddo, tranne per bagliori di leggerezza inconscia, fugaci ed eterni in una comunione poverella di invisibili beni vitali ; del retaggio inconscio ma stordente dei lutti ignoti di tutte le « moltitudini braccate ». una distopia che non è finzione, presentimento ma postura banale del quotidiano « ora noi viviamo in tempi di cenere e detriti, in un deserto disarticolato di gemiti e fuoco ». il fuoco e l’acqua sono due elementi onnipresenti nei Poèmes, elementi bifronti dell’infero e del superno : violenza e svezzamento d’amore, grazia vitale e annientamento.

Nella poetica di Manon la guerra, reale e metaforica, è guardata dal basso ; dagli occhi dell’infanterìa che offre l’innocenza dell’infanzia, di chi non ha parola, come carne da cannone. dagli occhi aperti e spenti con la bocca digrignata del soldato Lucien Geominne di Dubuffet ; un volto di contadino qualunque, pazzo qualunque, malato qualunque, bambino qualunque ceduto ad armi qualunque. la guerra è metafora della banalità non solo del male dichiarato ma anche di quello patito senza sapere dove guardare. delle schegge che inveiscono con neutralità, come in uno degli « ultimi telegrammi » di Manon : « gregge di cicloni furiosi stop papaveri predatori stop urla delle forche magnetiche stop grandi piogge di virgolette stop nugoli di carni avariate stop deserti di sterco stop coorti di suicidi stop città polverizzate stop universi in briciole stop » (da Qui vive, Dernier Télégramme/C. Manon, 2018 ; trad. C. Panella). e i primi cimiteri dei fanti sono posti banali per atti di morte banali. come un uomo avvolto dal fuoco che viene guardato senza fretta (Poème #5) ; stesso evento dell’eruzione di un vulcano, della colonna nera di un’esplosione, dello sparo che uccide un volatile partito dal fucile della giuliva cacciatrice che chiude il Poème #4. dopo aver gioito della sua mira punta la persona invisibile che le sta davanti, poi l’osservatore dietro lo schermo ; noi. uccello di carne o tiro a segno del Luna Park, stesso divertissement. perché l’accadimento è di per sé neutro, e per questo il dolore dei viventi più solo. e ripetendosi solo diventa folla. chiede dolcezza, compassione, indulgenza per tanta solitudine di massa, ogni volta, chiede.

« adoprarsi, alla fine, per far battere all’unisono i cuori di coloro che sono guardati e quelli di chi guarda », scrive Manon. per tenere accese le lucciole.

Autore e copyright della foto di Christophe Manon: Thomas Deschamps

 

Da Segni dei tempi #4

Christophe Manon

Traduzione: Cristiana Panella

 

Come la luce come sovente la sera come la luce declina e si stempera poi viene la notte, assolutamente come. O come se ci fossero loro, ci fossi tu, ci fossimo noi, ci fossero lui e lei, e noi fossimo tutti così tangibili, come vestiti di sogno e cambiando forma incessanti, e come opulenti, come manifesti, girando a una velocità vertiginosa sotto un vecchio cielo di ruggine, e tutto questo fosse di una dolcezza infinita. Come corpi vinti, come corpi trionfanti, come distesi insieme e simili sulla sabbia, felici forse a guardare il mare. E la risacca delle onde. Oppure era desiderio. O il vasto spazio che improvviso si apriva poi si richiudeva. Come se questo avesse una qualche importanza. È proprio questo, sì; è questo, che ci fu chiesto. "Qui più che altrove l'uomo può contemplare con spavento l'abisso di miseria dove l'hanno dato al precipizio lo spirito di violenza e il primato della forza". Ma pietà, disse lei, pietà. Pietà per la perdita delle rose. Uno due tre e quattro, e uno è già sempre abbastanza, è abbastanza ma troppo veloce. Ma non è un luogo, o così poco luogo. A stringersi gli uni agli altri. A giocare a nascondino. A risa scoppiate e urlare e cantare e dimenarsi e divertirsi e tutto questo perché? Perché? Oh, perché? E come fronteggiare? Come fare Segno di tutto questo? Camminando verso nuovi soli, sempre più grandi, e ancora più grandi, e non è finita. Poiché mai, no, mai noi siamo stanchi. Le tue labbra sulla mia pelle. Cos'è se non danza di particelle? Una presenza che forse non è un'illusione. Né sogno né vapore. Dove si annidano precisamente i morti nel loro giusto sapere. Un aereo. Un cane. Un bacio. Un trattore. Vecchie carcasse arrugginite in fondo ai filari di vigna. Un bacio. Un chilo di patate. Una domenica. Un quadrifoglio. Un coniglio abbastanza dolce da calmare la paura. E fabbriche e macchine e motori e solidi, anche questo è pensare. E fare fieno, mietitura, e non è niente, sii buono, sii buono per favore. Ad asciugare le lacrime. E cos'altro? È il suono della tua voce che mi commuove. Sotto Ogni Cucitura. La rabbia. La rabbia è il lusso autentico di uno splendore infinitamente rovinato ma che conosce il prezzo di un'emozione condivisa e nient'altro, nient'altro, e oltre. Da impiccarsi al tuo collo. È così tanto tempo che esisto, sai, e non posso dimenticare nulla. Se hai la testa altrove, adesso. Rosso. Rosso e nero, lo striscione dei possibili. Che sia lodato l'istante in cui in uno slancio improvviso mi prendesti per mano. È esattamente qui, la misura giusta. Mamma, sei tu, sei proprio tu, mamma, sei tu? Che abbiamo sete, in questo momento. Che loro si nutrono d'insetti e limacce. Che sono spavalde. Che sicuro ti piace se io adesso godo. Qui non più che altrove. Predatori e prede. La loro magra speranza di non scomparire. La loro immensa speranza di non scomparire. Ora che non è ora, ora. Riusciamo a ritrovarci in una grande confusione. Se il tempo lo permette. Un rospo, un uccellino, molto piccolo, o giusto piccolo. E grazie, grazie per averli qui. Cosa sono diventati? Lo so? A che età? Dove ci porterà, questo? Cosa significa? Che ne pensi, tu? Noi siamo a settembre, siamo ad ottobre, a novembre, a dicembre, a gennaio, siamo a febbraio. Morti, così tanti morti, sepolti senza funerale. Da perdere la faccia. L’antico mondo sempre si riaffaccia.

 

https://livre.ciclic.fr/labo-de-creation/le-labo-de-creation/christophe-manon-memoire/christophe-manon-poemes-pour-les-temps-presents-4

Lettura animata dell’Autore, apparsa su « Ciclic »

 

Comme la lumière comme souvent le soir comme elle décline et s’estompe puis vient la nuit, c’est tout comme. Ou comme s’il y avait eux, il y avait toi, il y avait nous, il y avait lui et elle, et nous étions tous si tangibles, comme vêtus de rêve et changeant sans cesse de forme, et comme opulents, comme manifestes, tournant à une vitesse vertigineuse sous un vieux ciel de rouille, et tout cela était d’une douceur infinie. Comme des corps vaincus, comme des corps triomphants, comme étendus ensemble et semblables sur le sable, heureux peut-être à regarder la mer. Et le ressac des vagues. Ou bien était-ce du désir. Ou le vaste espace qui soudain s’ouvrait puis se refermait. Comme si cela pouvait avoir de l’importance. C’est bien cela, oui, c’est cela qui nous fut demandé. « Ici plus qu’ailleurs, l’homme peut contempler avec effroi l’abîme de misère où l’esprit de violence et la primauté de la force l’ont précipité ». Mais pitié, dit-elle, pitié. Pitié, pour la perte des roses. Un deux trois et quatre et encore un c’est toujours assez, c’est assez mais trop vite. Mais ce n’est pas un lieu, ou si peu. À se serrer les uns contre les autres. À jouer à cache-cache. À rire aux éclats et hurler et chanter et se déhancher et se divertir et tout cela pourquoi ? Pourquoi ? Oh pourquoi ? Et comment faire face ? Comment de tout cela faire signe ? Marchant vers de nouveaux soleils, toujours plus grands, plus grands encore, et ce n’est pas fini. Car jamais, non jamais nous ne sommes las. Tes lèvres sur ma peau. Qu’est-ce sinon danse de particules ? Une présence qui n’est peut-être pas une illusion. Ni songe ni vapeur. Où nichent précisément les morts en leur juste savoir. Un avion. Un chien. Un baiser. Un tracteur. De vieilles carcasses rouillées au bout des rangs de vigne. Un baiser. Un kilo de patates. Un dimanche. Un trèfle à quatre feuilles. Un lapin doux assez pour apaiser la peur. Et usines et machines et moteurs et solides c’est penser aussi. Et de faire les foins, de récolter les moissons, et ce n’est rien, sois sage, sois sage s’il te plaît. À sécher les larmes. Et quoi d’autre ? C’est le son de ta voix qui m’émeut. Sous toutes les coutures. La rage. La rage est le luxe authentique d’une splendeur infiniment ruinée mais qui sait le prix d’une émotion partagée et rien d’autre, rien d’autre et d’avantage. À se pendre à ton cou. Voici si longtemps que j’existe, je ne peux rien oublier. Si tu n’as pas la tête à ça. Rouge. Rouge et noir, la bannière des possibles. Que loué soit l’instant où d’un élan soudain tu me pris par la main. C’est bien là la bonne mesure. Maman, c’est toi, c’est bien toi, maman, c’est toi ? Qu’à présent nous avons soif. Qu’ils se nourrissent d’insectes et de limaces. Qu’elles n’ont pas froid aux yeux. Qu’assurément cela te plaît si maintenant je jouis. Ici pas plus qu’ailleurs. Prédateurs et proies. Leur mince espoir de ne pas disparaître. Leur immense espoir de ne pas disparaître. Maintenant qui n’est pas maintenant maintenant. On parvient à se retrouver dans une grande confusion. Si le temps le permet. Un crapaud, un oiseau petit, très petit ou seulement petit. Et merci, merci pour les voici. Que sont-ils devenus ? Est-ce que je sais ? À quel âge ? Où cela nous mènera-t-il ? À quoi ça rime ? Qu’en dis-tu ? Nous sommes en septembre, nous sommes en octobre, en novembre, en décembre, en janvier, nous sommes en février. Des morts, tant de morts, ensevelis sans funérailles. À perdre la face. Le monde ancien toujours refait surface.


Cristophe Manon (Bordeaux, 1971) ha pubblicato una ventina di opere tra cui Extrêmes et lumineux (Verdier, 2015, Prix Révélation de la SGDL), Au nord du futur (Nous, 2016), Jours redoutables, avec des photographies de Frédéric D. Oberland (Les Inaperçus, 2017), Vie & opinions de Gottfried Gröll (Dernier Télégramme, 2017), Pâture de vent (Verdier, 2019), Testament (d’après François Villon), con un CD, (Dernier Télégramme, 2020). Ha lavorato per le edizioni Ikko, che fino al 2009 hanno pubblicato Henri Chopin, Michel Valprémy, Pierre Albert-Birot, Sylvain Courtoux, Vélimir Khlebnikov, Carla Harryman, Saint-Just, e per la rivista MIR. È autore di numerose letture pubbliche in Francia e all’estero.