Cristina Annino: due racconti inediti, una poesia, un'immagine

Cristina Annino

Due racconti inediti, una poesia e un’immagine



Fatto sta


Fatto sta, la

speranza è una casa, ed è

larga più del luogo in cui dormo. La devo

sollevare sveglio ogni

alba, per infilarla in bocca; poi

con acqua la ingoio fissando sul guanciale

l’orma di lei che mi spacca

i polmoni per respirare. Se resisto son

degno.

da Casa d’aquila, Levante Editori, Bari 2008

La solitudine

Kid (Racconto inedito)


Fin da bambino ho sempre dovuto insegnare qualcosa a mia madre. Con la sensazione, ogni volta che la portavo ad essere differente da quel che era, di allontanarla dalla morte. Ingoiavo io qualche pezzettino di quella dandole in cambio una parte viva del mio corpo. Siamo pertanto giunti a un rapporto quasi eroico che però non ha niente a che vedere con l’amore spontaneo o con la riconoscenza. E’ qualcosa di più: il mio IO spropositato ha bisogno di una sua spropositata fragilità perché di questa campa, anche consumandosi.

-Sai quel’è il vero senso della letteratura?- le faccio domande di questo tipo; in tal modo mi addestro. Lei continua a mangiare ma pensa. Pensa anche di avere un figlio strano, le cui ampiezze mentali vanno e vengono all’improvviso. Come nell’imbecillità, che è lo stato originale prima dell’organizzazione. Insisto:

-Finché, per esempio, stimerai un grande architetto, ecc, qualunque fenomeno che ti sembri sul serio un fenomeno, non farai grande letteratura. Devi spellarlo vivo per guardargli bene le bucce e quando gli avrai trovato il punto debole sarai sulla buona strada. Ogni grande talento è un bravo scassinatore. Il più abile scassinatore delle proprietà altrui è il più grande artista.

-Vuoi dire che “questo” è il tuo metodo?-

Chiede o riflette, ma va bene: la mezza misura addestra. Devo solo stare attento che non arrivi alle conclusioni da sola. Quelle, deve impararle da me.

-No, intendo dire che questo è il metodo migliore…

Poi insisto, calcolatamente noioso:

-Il Metodo è ogni metodo degli altri. Qualsiasi attività altrui è la tua professione. La letteratura è ciò che sanno fare gli altri, ma tu devi farlo meglio di loro perché sorvegli anche tutto il resto e contemporaneamente.

-Mah, a me pare un modo d’essere invidiosi!

Spesso fraintende, però così posso andare avanti.

-Non potrei mica essere invidioso di un’ape, che c’entra. Eppure mi interessa anche il metodo delle api. L’invidia non è solo cattiva, cavolo!

Non c’è da meravigliarsi se non regge il mio ritmo. Smette d’ascoltare, nel suo solito stile, stile solo suo perché lei non ruba niente. Sposta il discorso su qualcosa di personale, mettiamo la collana che ha al collo. Dice, parlando di sé:

-Povero tesorino, tutti i gioielli me li son dovuti comprare io, coi miei risparmi. Mai un regalo, neppure quand’ero bambina. Il primo anellino me lo feci con una campanella da tende. Mi faccio tanta tenerezza...

Come no! Lei è l’unico fenomeno che faccia saltare i muri di casa, con la sua irrazionalità: E io che amo la logica, ammetto che i muri saltino, pur di renderle omaggio. Non perché sono suo figlio, non basta. E’ qualcosa che ha a che fare con la letteratura. Devo inseguirla perché possiede quel che non ho. Ha vitalità mentre io ho solo frenesia. Devo imparare. Lei parla persino coi tappeti, dal grande ottimismo che possiede; io dovrei vivere nel Tibet almeno un anno prima di riuscirci. Non so cosa la faccia agire e pensare in questo modo. Devo allora tenere alta la guardia, non perderla di vista e allo stesso tempo guardarmi le spalle, perché lei è il mio compare.

-Finirò con l’essere mediocre quanto te, se non la smetti coi tuoi anellini!

Le grido mentre termino la frutta; un po’ di vino mi va di traverso. Cerco di mantenermi calmo ma ancora non ho lo stile giusto. Quello di Hendry Jones, per intenderci. Dovrò impossessarmi di quel tono medio indifferente a cui non tremano mai le mani o la voce, anche quando pensa “la mia vita è andata”. E poi si gira, Hendry nel film, e questo potrebbe già finire su quelle sue dita ferme. Tipi così hanno il dono dell’ovvio. Come mia madre. L’Ovvio alla grande. Ogni mistero fonda qui la propria vitalità: nel piccolo sta il grande, mentre non è sempre vero il contrario. Quanto dico, Hendry detto il Kid, doveva saperlo fin da bambino. E solo per questo poté rispondere “e con ciò?”, alla fine della sua storia su questa terra. Tre parole così, dette a un certo punto, valgono un treno di neologismi. C’è bisogno di modi, soprattutto questi, fanno letteratura.

-Sta tranquillo, ho capito!- mia madre sorride. Poi respira profondamente perché ha il cuore debole. Potrei sentire il suo respiro da tre metri di distanza, come una sveglia dentro un cassetto “ce ne stiamo andando, Kid” allora penso.

Oggi comunque il ragno è stato affar suo. Nero, grosso, con una schiena ad attico. Quando l’ho colpito col piede, gli ho solo spolverato le spalle; è corso via ridotto a metà. Mia madre invece l’ha preso in pieno:

-Era una femmina- ha spiegato- sopra portava le uova.

-Che schifo!

-A te fa schifo tutto, anche la natura. E’ per questo che mi chiami col nome di battesimo.

-Mi viene naturale, che c’entra- le ho risposto quasi con meraviglia.

Che c’entrava, metter di mezzo sempre la biografia. Ma lei fa così, è il suo stile; siamo due compari. Ho pensato meglio non approfondire, queste cose non servono a niente, né a vivere né a scrivere.

Ma mi aveva colpito, Come un ebete nel mio studio continuavo a ripetere “mi viene naturale, ecco tutto, che c’entra”. Anche chiamare i miei libri preferiti col nome dell’autore, il titolo me lo scordo, ma non Dylan o Henry; il titolo non conta. Anche in loro cerco le persone perché cerco un segreto, come in mia madre. Anche quando guardo le nuvole tacchino. Non contano un accidenti le nuvole, ma sì il fatto di vederci dei tacchini. E’ il mio modo di guardare le cose, che conta. E questo ce l’avrò sempre, anche se le nuvole, in tutta la mia vita, non torneranno più ad essere come sono in questo momento. (1984)



Il tritacarne (Racconto inedito)


Io mi addormento con difficoltà. Devo prima fumare molte sigarette, poi camminare un bel po’ all’aperto, quindi tornato al chiuso, discutere con il sonno e fargli qualche buona promessa. Solo allora, se la posta è abbastanza alta, lui decide di stendersi accanto a me. E inizia così il nostro dialogo come iniziassero dei racconti. Gli unici racconti solo miei, cioè offerti dalla ditta; e garantisco che sono i migliori racconti che uno potrebbe mai scrivere.

Ogni notte io sono un grande autore, perché appunto tale tecnica mi costa sempre molta fatica e disciplina. Se sono arrivato a immagini essenziali e pulite; se i sogni barocchi di quando ricordo d’aver iniziato a sognare sono partiti da bravi verso notti altri, è perché con il tempo, i miei patti si facevano più risoluti. Allo stesso modo che sempre più stentavo ad addormentarmi. Ma così sono passato –come dire- dalla poesia alla prosa e poi sono giunto a quella autentica poesia ch’è solo un certo tipo di prosa.

Ora, la validità maggiore del mio sonno sta nel fatto che mi corregge la vita. Non la consola, la corregge. Tutti sappiamo che la vita è abbastanza retorica. Vi si consumano molti macelli soprattutto in nome della speranza. L’origine dei nostri mali, per me, è la speranza che è cieca, mentre definiamo cieca la fortuna che invece è, al massimo, originale o sciocca.

Non sostengo che la vita sia apparenza. La vita concede delle verità, come i miei sogni, solo che questi tolgono il refuso clamorosamente più umano e in buona fede. Cancellano insomma la speranza, cioè quel tipo di bellezza solo retorica che è il condizionale. Quello per cui tanti corrono felicemente al macello con l’illusione che il meccanismo potrebbe all’improvviso incepparsi. Prima della fine. Chiamano questa tecnica senso dell’esistenza; e beati se s’accontentano.

Io sono ormai giunto a tale grado di bravura per cui sono felice solo in base all’esattezza delle mie bozze.

-Beh, ora vado a dormire- dico uscendo di casa, prendendo un nuovo pacchetto di sigarette.

-Hai bisogno di qualche consiglio?- fa mia moglie.

-No, perché?

-Si dice che la notte lo porti. Si dice dormirci sopra, non è cosi?

-Si dicono tante cose.

Lei ha i piedi nel tritacarne; un giorno glielo dirò. Perché lei ama i proverbi, ci tiene ancora alla bellezza e annega nel condizionale.

-Si dice anche che sei stufo di me?

-Anche.

-Il tuo sogno allora ti consiglierà di “cancellarmi”.

-Anche.

-Insomma, non sai dire altro che anche?

-Sì, e prometti di chiamarmi Signor Anche. C’è qualcosa di sensuale. Io ti chiamerò Signora Potrei. Allora. La signora Potrei in Anche teme i sogni di suo marito perché non ama la buona letteratura.

-Qualcosa in te non funziona mica!- dice sconvolta.

-Lo so. Troppo assonnato.

-Guarda che un giorno invece sarò io a lasciarti.

-Può anche darsi.

-Ma si può fare almeno un discorso serio con te?

-Anche due. Domani però, ora vado a dormire.

-MA SE STAI USCENDO.

-Mia cara Potrei, io non ho bisogno di consigli, come dici tu. Non ho bisogno di lasciarti né di dormirci sopra. Né di essere amato o di amarti. Io non ho necessità a breve scadenza perché tutto, dico tutto, mi è efficacemente superfluo. E ora, se preferisci, dirò che vado in biblioteca.

Io sono il più bastardo, freddo tranquillo organismo vivente. Il signor Anche sa cos’è una pagina ben scritta. Di quelle che non si leggono da nessuna parte tanto sono ben scritte, perché non ce ne sono di così vere. Non ne esistono di così, tanto sono sincere. Non hanno niente a che fare con l’amore, non si noterebbero neppure, né farebbero bella figura perché hanno perduto la speranza. Ma sono le uniche che andrebbero scritte, uno di questi giorni, ad avere coraggio e coscienza e tranquilla fedeltà a se stessi. Solamente un signor Anche può farcela, con una simile sincerità. Essere il peso straordinario d’un uomo e compiere l’azione esterna di trasportare se stesso nel buco nero della verità col la massima leggerezza. M’è costato riuscire a crederci; m’è costato il prezzo di capire che la verità non è mai mortale quanto invece lo è la bellezza o la felicità. M’è costato come spengermi. Perché questo è il rigore dei miei sogni: mi tolgono il senso della morte e il senso della speranza, e ogni volta mi risveglio più freddo. Ma non credo ci sia altra tecnica. (1984)



Cristina Annino, nata ad Arezzo, vive e lavora a Roma. Nel 1968 pubblica il libro Non me lo dire, non posso crederci, edito da Techne a Firenze, città nella quale si laurea in Lettere moderne. Nel 1977, Ritratto di un amico paziente, Roma, Gabrieli. Nel 1979, Boiter, con Forum, Forlì, (romanzo). Nel 1980, Il cane dei miracoli, Foggia, Bastogi. Nel 1984, L’Udito Cronico, in “Nuovi poeti italiani n. 3, Torino, Einaudi. Nel 1987, Madrid, Corpo 10, Milano, libro vincitore del Premio “Russo Pozzale” nel 1988. Nel 2001, Gemello Carnivoro, Faenza, e nel 2002, a Prato, in collaborazione col pittore Ronaldo Fiesoli, Macrolotto. Nel 2008, Casa d’aquila, bari, Levante Editori. Ancora inedito il libro di racconti Una Magnifica Giovinezza. Numerose le plaquettes, recensioni e pubblicazioni in prosa, poesia, saggistica, in molte riviste e antologie sia italiane che straniere. Da alcuni anni si occupa anche di pittura.