Sapienti brevità

Eleganti e concise appaiono le intense scritture di Alessandro Ghignoli in “Fabulosi parlari”.

Di “parlari” certo si tratta, poiché il “frammento”, qui, lungi da opporsi all’ “intero”, pare piuttosto “parte” in grado di richiamare il “tutto”, l’ ampio spazio bianco non comunicando senso di vuoto, bensì disponibilità a dare seguito alla scrittura (i testi, non a caso, vengono presentati uno ad ogni inizio pagina e non, come spesso accade, di seguito, con stacchi).

Dotato d’ indubbie capacità evocative, l’ autore non attenua mai il proprio deciso gesto, conferendo alla raccolta una compattezza indicativa di atteggiamenti coerenti nella struttura, quanto esposti  alla suggestione di usi linguistici dalla peculiare ritmicità.

Non si è in presenza di schegge, scorie prodotte da una deflagrazione, ma di calibrati, affascinanti, scritti, tali da porre la questione di quale sia la valenza, in poesia, del rapporto tra integro e frantumato.

Si conclude, nel concreto della scrittura, per l’ inadeguatezza di siffatto, schematico, interrogativo in àmbiti, come quelli in argomento, in cui la “lite” è “mite”, le “impronte” sono “impronte su impronte”, l’ “indolenza” risulta “elettrica”, il “montaggio della quiete” “intatto”, in cui le quotidiane modalità logiche, cioè, vengono trascurate a favore d’ usi più consoni ad esigenze espressive altrimenti destinate a rimanere insoddisfatte.

Proponendo scritture dense, ricche di energia, costruite attorno a complessi nuclei, Ghignoli pone (e risolve) il problema del valore dell’ istanza poetica senza cadere nelle trappole di ambigue trame esplicative: la poesia, egli mostra, parla, sempre, (anche) di se stessa.

Fu fiduciosa consapevolezza.

Marco  Furia

(Alessandro Ghignoli, “Fabulosi parlari”, Gazebo, Firenze, 2006)