Loredano Matteo Lorenzetti, saggio: “La parola eveniente”

Esiste un dire della parola che, raschiate le incrostazioni del senso e lucidata l’opacità dell’usura del tempo, pronuncia il futuro, nel nuovo dell’eveniente?

Ascoltando Emily Dickinson, nella lirica intitolata “The future never spoke”, il futuro tace il suo diveniente accadere:

Il futuro – non ha mai parlato –

né mai – come fanno i muti –

rivelerà a segni – una sillaba –

del suo profondo avvenire –

Eppure la parola, come originario gesto vocalico mentale – all’udito sordo e alla trasduzione grafica estraneo –, nel suo invisibile e inudibile tenue germinare fonemico, appena rumoreggia per accennare, sommessamente, la possibilità d’un senso eveniente.

Si tratta d’una gestualità intima, d’un moto recondito, d’una azione nascosta non palesata all’esterno. Di un atto afono alle labbra, fintantoché alla soglia d’esse giunga. Che compaia, cioè, per danzare sillabe sonore sulla bocca, nello spazio intermedio fra interno ed esterno del corpo. In quella umida cavità vibrante in cui si compongono e decompongono i suoni delle parole.

Tale condizione di gestualità motorio-fonica possiede un carattere e un potenziale tra-s-f-orma(t)tivo: una forma attiva tras-formante, che contiene l’orma di sensi possibili. Suoni-sensi che fluidamente transitano nel luogo della mente, in articolanti gesti indefinitamente mutanti. Poiché nel mentre cercano una forma sonora che componga la parola, vengono in-formati d’ulteriori possibilità di forme. Sicché nel tentare d’essere gesto in sé concluso, de-finente, scopre quel che può divenire nel suo aperto eveniente. Sperimenta cioè lo stato provvisorio e precario dell’essere sul punto di divenire altro dal pensabile.

Prosegue Dickinson:

ma quando la notizia è matura –

la presenta – nell’atto –

prevenendo ogni preparazione –

fuga – o sostituzione –

La ‘parola futura’, nell’eveniente da cui trova forma e senso, non ha praeparatio, bensì paratio, quale aspirazione a, ricerca finalizzata a procurarsi qualcosa.

In altri termini viene a costituirsi come tentativo aspirante al ricercare quel materico suono che è da pronunciare per acquistare altro gesto-senso da quello che è stato scolpito nella parola. Scolpito dallo scalpello della discorsività e dal martello del tempo trascorso.

Né la parola eveniente fugge dalla sorte del consumarsi. Non si sottrae, non scappa dal logorarsi, che la corrosione dell’uso inevitabilmente le procura.

Neppure sostituisce altra parola, bensì aggiunge la propria significante sonorità perché è raggiunta da un inatteso senso sopravveniente, che inaugurando altro significato destina quel rumoreggiare a intonarsi all’eveniente.

Il ‘movimento mentale’, che aziona il generarsi della parola, equivale a una trasparente danza fonica che coreografa la ricerca di senso, attraverso le movenze articolatorie della voce ancora non detta. Perché appartata. E solo ri-suonante nell’intimità corporea. Non disposta, nell’immediato, a uscire nello spazio comune dell’altro. A lasciarsi co-abitare dall’altro.

È un gesto che inizialmente abita in noi per ‘esistenzializzarsi’. Per acquisire un senso esistenziale di vivezza, sperimentato nel legame con la storia di se stessi, con il suo svolgimento e con il vissuto del possibile diveniente. Il quale accenna a un addivenire – nella prossimità d’altro divenire – pro-seguente quel che si è già divenuti.

In tale situazione d’elaborate vicissitudini trascorse, si creano le premesse e le condizioni perché venga a strutturarsi l’eventualità della dimensione ritmico-sonoro-musicale della parola addiveniente che, proiettando la sua ombra al di là del presente, sconfina nel futuro: dal movimento, sommovimento, del vissuto che conduce a sorprendente ulteriore trama vocalica a venire.

Come se quel che l’esperito vibra sonoramente nella nostra mente-corpo abbisognasse d’un al di là della parola che esprime l’esperienza pregressa, la sua storia. Il passato che la condensa. Per dis-farsi e ri-farsi nella sostanza d’un suono in-audito. Il quale possa, dapprima come rumore delle cose e della vita, ri-umanizzare quel che va ri-pronunciato nell’oltre il pronunciabile. Al fine di trovare un senso altro da cui ri-cominciare a dire. Oltrepassando non solo il già detto e l’ancora da dire, ma avventurandosi nell’indicibile.

E’ là, nello sconfinato del possibile impossibile da pronunciare, che tende la parola poetica, quale vibrazione sospesa nel vuoto del tempo che l’attornia. Smarrita dalla distanza dalle cose, accecata dai significati nascosti nell’opacità gettata oltre la luminosità di quelli sfolgoranti, sui quali la quotidianità, nel suo distratto pronunciarla, abbagliata inciampa.

In questo non vedere del tutto la lontananza, l’intervallo, la differenza che separa la parola dall’originarsi del suono, nel suo allontanarsi dal luogo del silenzio – seppure cammino angosciante –, trova inizio una sorta d’estraneazione. D’erranza esule della parola poetica. Distaccata da ciò che la conduce e riduce al comune, al banale, al routinario di un’ormai nota sonorità, con cui ripete senso su identico senso del reale. Decretando la rottura con il legame quasi inscindibile, perciò morboso e nefasto, con la ripetizione. La quale consolida e pietrifica il significato. Segnando, in tal modo, il destino dell’indifferenza all’eveniente. Al venturo, al trasformato da ciò che giungendo reclama innovata sonorità, innovante ritmicità.

Spetta alla poesia, alla parola narrante, al gesticolare immaginante del vociare interiore, il sonorizzare ogni lemma nel codice della grammatica dell’intimità, per metamorfizzare la parola eveniente affidandole altra sonorità. Destinandola all’inatteso spazio sonoro che mette a disposizione il moto poetico, quale spazio inabitato dal senso già udito.

Spetta al silenzio che ante-cede il rumore del non ancora significato d’una espressione vocale a sostenere, coraggiosamente e trasognante, il suono eveniente che teme di non dire abbastanza. Che rimbalza dal cuore alla mente, senza sufficiente eco per materializzarsi.

Alda Merini sostiene che alle volte il silenzio dice quello che il proprio cuore non avrebbe mai il coraggio di dire.

Il suono silenzioso della parola poetica, in gestazione nella mente, e dal cuore effuso e nutrito, è al servizio dell’interpretare quel che il sopravveniente non ha ancora detto: l’assenza della parola che s-piegando l’avvenire lo piega al senso del presente. Privandolo, così, del patrimonio sonoro con cui può accennare ad altro dire. Quel suono che si rende cortese nella funzione poetica del lasciar risuonare il molteplice del senso di cui la parola cerca e immagina essere suo luogo – sognante – e destino.

Conclude Dickinson:

Indifferente per lui

dote – e dannazione –

suo ufficio – solo eseguire –

il telegramma – del destino –

La parola eveniente ci raggiunge da una sorta d’aggrovigliata temporalità esperienziale unitaria – magmatica – di passato e presente. E dai dintorni della forma di vita che autenticamente, intimamente, ci appartiene storicamente. Nella memoria con cui gli abbiamo dato forma, sagome d’affetti, riverberi sonori e senso.

Essa irrompe in quel flusso vitale degli eventi, che assicura ciascuno della propria vitalità. Rassicurando la persona da un oltre che allude a una fine, con lo sconquasso della possibilità del venturo.

L’eveniente, pertanto – come emozione infinita del mutare, soprafacente la pena esistenziale del permanere nel pronunciare e sentire identici suoni del dire di sé –, si prospetta come tramite per la con-versione delle certezze di ciò che si è in una versione sorprendente, trasalente, di ciò che non si è. Se non nella forma informale dell’inatteso sopra-giungente. La quale – nel de-formare il noto di se stessi – ci solleva dall’oppressione dell’accertato e immutato di e in se stessi, pro-muovendo al contempo, ricerca e invenzione di nuova forma vitale del pensare, dire, essere.

E’ in tale possibilità, e altra versione di quel che si è stati, che s’annida l’esteticità-estaticità del senso e la dimensione poietico-poetica dell’intonarci a quel che ancora non siamo e, quindi, non possiamo dire. Se non in un’in-forme molteplicità di sordi suoni, di sommessi balbettii, di soffocati gemiti, di ripetute interruzioni foniche e silenzi.

Ed è dal silenzio che pervade l’esistenza che la parola pronuncia narrativamente la sua storia di-veniente. Nell’avventurosità del venturo. Poiché il silenzio non è soltanto la condizione stessa del pensare, ma pure intervallo, cesura, spazio vuoto in cui precipita l’esperienza comune e la parola ordinaria.

Scrive Dickinson in “I heard, as if I had no Ear”:

Sentivo, come se non avessi orecchio

finché una parola vitale

fece tutta la strada della vita a me

e allora seppi che sentivo.

 

Loredano Matteo Lorenzetti, docente universitario di psicologia, è direttore scientifico di quattro collane, per le edizioni FrancoAngeli, fra cui “Arte scienza conoscenza”. Recenti sono i romanzi Ripostes: La maiuscola di Osvaldo; Mastro Spadò; Un uomo qualunque; Sognare in due.