Carmine Lubrano, Letania salentina e altre Letanie, JazzPoetry 2018, nota di Ranieri Teti

Balza per prima agli occhi l’inconsueta dimensione, esageratamente grande per un libro di poesia. Allo stesso modo era enorme il formato della storica rivista che veniva pubblicata da Carmine Lubrano sul finire del secolo scorso, “Terra del fuoco”.

Pensare in grande richiede adeguati supporti, pretende un ordine logico a prescindere.

Tutto questo trova un senso precisissimo non appena si apre “Letania salentina e altre Letanie”: la fantasmagoria linguistica è trascinante, le parole sono battenti, il ritmo fende il silenzio della pagina senza pause, lo trascende, come se le parole ne uscissero innervando l’aria della stanza con il loro impatto sonoro. Nell’ipertrofia del testo non solo non intervengono pause, non ci sono nemmeno cedimenti né cadute, tutto è strettamente sorvegliato.

Lubrano inaugura un uso felicissimo della lingua, riuscendo, con apparente naturalezza e in maniera mirabile, a fondere in molti testi l’italiano con il latino e con il napoletano. Siamo di fronte a un’opera che, anche se ci immette in un infinito eccesso verbale, si fa cogliere interamente. La direzione è chiara: poesia antilirica, talvolta irridente, a tratti carica di sdegno, in generale colma di letizia, anche nei momenti dolenti: “ma la poesia la poesia / (…) / è lingua inaudita che scopre le sue ferite”.

Il volume contiene inoltre molti inserti grafici che richiamano la straordinaria epoca, attraversata dall’autore, della poesia visiva: queste pagine, frammiste al testo poetico, offrono l’altro lato della poesia lineare, un’estensione di possibilità, uno straniante prolungamento dei versi.

Letania salentina e altre Letanie, JazzPoetry 2018

Letania salentina e altre Letanie, JazzPoetry 2018

Letania salentina e altre Letanie, JazzPoetry 2018