Giovanni Infelìse, L’alfabeto sepolto, con una nota di Marco Furia

La cadenza infinita

 

Con “L’alfabeto sepolto”, Giovanni Infelíse presenta una sequenza di versi la cui vivida compostezza pone in essere affascinanti armonie prive d’inizio e fine.

Dove comincia l’arcobaleno? Dove finisce?

Si può soltanto prendere atto della sua rara, leggiadra, presenza.

Così, i versi del Nostro non iniziano, paiono seguenti ad altri, né finiscono, perché alludono ad altri che arriveranno.

Arriveranno o arrivano?

“Arriveranno” se ci fermiamo al punto, “arrivano” se immaginiamo una continuità ininterrotta.

Qualcosa induce a proseguire, a continuare: questo qualcosa è già poesia?

Sì e no.

No, se vogliamo restare legati al dato concreto, sì, se intendiamo non trascurare quel senso d’armonia che ci accompagna, che non ci abbandona.

Come la vita, la poesia può essere, certo, misurata, ma siffatta misura coglie soltanto

alcuni dei suoi infiniti aspetti: il poeta, mostrando certe inedite fattezze, apre immensi spazi in cui ogni individuo, anche se non scrive versi, può riconoscere se stesso e i suoi simili raggiungendo maggiori consapevolezze.

L’umana esistenza incontra limiti temporali, ma, quanto a profondità, a intensità, il campo è libero e immenso.

Giovanni, con pregnante compostezza, ci invita a esplorarne qualche parte secondo cadenze semplici eppure complesse, sempre memori di un “alfabeto sepolto” che spetta al poeta, come a chi lo ascolta, disseppellire con quella cosciente assiduità capace di non cadere mai nel solipsismo o, peggio, nell’arroganza.

Il buon poeta, insomma, è la sua lingua, ma anche quella di tutti. Marco Furia

 



L’alfabeto sepolto

Dividere in segni

le dune del corpo

sempiterne lune

a privarsi

di un carattere

a esibirsi affisse

a un sipario

a un colore

disabitato

a un inquieto

geroglifico

della mente

al suolo

di un buio immortale

alla traiettoria

di un volo

trafitto da mute lingue

da un eccesso

di sonorità

selvagge

dall’aria

di contrade malsane

dalle mani

avverse

di chi cadde dalla forca

senza l’abito

del proscritto

senza l’acredine

dello smemorato

sul cuore

che resta sedizioso

se resta

un insolubile dubbio

che una verità sia

a nutrire scritti e silenzi

da baciare al principio

lambendo

e disdegnando

il termine degli uni

e degli altri

fogli e fardelli

come fratelli

inchiodati al ventre

di una ballata

di un solitario

cane

di un’introvabile

coscienza

talvolta

di un legame

di un folle canto

che a spasso raschia

la terra aspra

umida di anime

– di chi era

la parola legata

all’oscenità

e alla bellezza

senza esistenza

né ombra?

Un desiderio di suoni

una prospettiva

e uno strumento

taglia figure

e concetti

di paese in paese

dominando luoghi senza

origine

un mare cifrato

di foglie

un pianto come

stecco

infisso in gola

parole

di una stanza eterna

ormai perduta

nell’insopportabile sete

d’amare.

L’eco ha un’infanzia

la solitudine l’età

di un destino antico

che piove polvere

dai righi accesi sui

lucernari

tra ferite e feritoie

oscure.

Una volta consumata

l’illusione

la morte

che commuove

porta con sé l’alfabeto

sepolto

le sue lettere

la sua quiete

il suo monito…

rem tene, verba sequentur

… lascito di una fine

che ha nello stillicidio

dell’acqua

l’eco di uno sguardo

recluso in una rambèrga

di incognite reali

che naviga

ormai naviga

senza rotta né brezza

né sillabe da intagliare

o dipingere sulla bocca

al termine del viaggio.