Diego Terzano, “Parapiglia”, videolettura; note di Flavio Ermini e dell’Autore

Diego Terzano, “Parapiglia”, videolettura;
doppia versione (per il “Montano” e la variante uscita su “Anterem” 99), note di Flavio Ermini e dell’Autore

Flavio Ermini per Diego Terzano, Essenziali riflessioni su “Parapiglia”

Tra volo e gravità

Solo la ninfa Mnemosyne – in quanto figlia di Urano (il cielo) e Gea (la terra) – potrebbe ancora dar luogo all’ascolto della coscienza originaria. Ma da tempo ormai Mnemosyne si sottrae al suo ruolo, ponendo così in evidenza l’ingiustizia dell’oblio al quale l’ha condannata l’essere umano.

“Parapiglia” è l’accorato volgersi alla ninfa per chiederle di tornare tra noi, portando con sé il suo linguaggio, fatto di gesti, di espressioni corporee, di occhi, di sguardi, di effusioni affettive; un linguaggio-dei-corpi a tutti comprensibile, in quanto dialogo, colloquio “tra volo e gravità”.

“Parapiglia” è l’incessante volgersi a Mnemosine affinché ci aiuti ancora una volta nella ricerca di una parola che, ripetendo l’origine, si costituisca come rinnovato principio di una relazione autentica con il mondo.

La nostra storicità, osserva Diego Terzano, non è di per sé una condanna; al contrario può consentirci di esercitare la nostra libertà, facendoci soggetti della storia stessa.

Il nostro esserci, d’altro canto, non è solo una chiusura in ciò che già è; al contrario può costituire anche un’apertura rivolta a ciò che può essere; un’apertura affidata a labbra che hanno finalmente ricominciato a parlare.

Ma queste possibilità possono realizzarsi solo a una condizione, e Terzano prova a indicarcela: diventare partecipi di un processo linguistico e gestuale in cui produrre continui ricominciamenti, in virtù della consapevolezza che il passato – con il suo peso – ha su di noi. Un passato al quale ci sarà ancora consentito accedere unicamente grazie alla memoria della quale unica custode è la ninfa Mnemosyne.


 

Parapiglia (Versione di aprile 2019)
 

Si spande di tra occhio e cielo un fumo

su cui corre una polvere stellare:

di là vite, oltremare,

punteggiano già tutta la pianura

del pensiero. L’imago tua e il profumo

di vaniglia, la rabbia liminare

che raccoglie un tonare

più nero, si rastremano in arsura, e

tra volo e gravità l’inarcatura,

antica, del tuo gesto ormai governa,

nella cieca caverna

del tormento, lo spazio e il tempo puro

del fiore: nato, e da sé morituro.
 

Il fuoco per l’abisso che riarde

funesto si fa sole; ancora mosso

dal tuo terrore rosso

mi richiudo negli atti, i tuoi, di petra.

Prolissa, la tua posa, nelle tarde

sere mi scuote e iracondo, commosso

è il tuo cuore colosso –

dei miei moti ti scopri geomètra.

Ma ora che, lenta, la bruma s’arretra

rivolta già ti desto, ed esitante,

a blandire un istante

senza modo. È un divino, eterno azzardo:

l’oblio, forse, godi nello sguardo.
 

Eppure attendo, come te silente,

che si riapra l’immobile stato –

un tocco delicato

della sottile mano, chiara linfa,

l’immane abbraccio dell’in sé latente

del mondo: come segno inabitato

l’evento è incastonato

tra i nostri corpi e il tuo volto di ninfa.

Come il fuoco la pietra (paraninfa

di nozze, e spettri, tra condanna e strazio)

risorgerà topazio

nel bruno dei tuoi occhi, giù nel mare

fresco. L’assillo vi lasci annegare.
 

E se poi l’aria, candida, che schianta

i nostri giorni avvolti nello speco

notturno, amore cieco,

ammaliasse di vera luce il corso

che s’invade del niente – già rifranta

da sempre dentro sé la vasta eco

di un remoto, più bieco

terrore (quello del senso, trascorso)...

Allora certo, nel folle decorso

– tra luci nuove – dell’inerte cuore,

guarderemmo all’amore

il primo, che si cela già nel bianco

del vento. L’alba ammanta il cielo stanco:
 

su queste lande, fuori del deserto

aspro – incastro d’eterne viltà,

fuor di necessità

che si versò nel ventre della terra,

due fonti attingono a uno sguardo aperto.

Tersa goccia di luna, è vanità

l’immensa oscenità

della misura: ecco un nume, ci afferra...

E ancora la tua mano: ora serra

l’unità del pensiero – l’aporia:

già questa melodia

è ombra, ma l’imago della sorte

buona rammenti. Recede la morte.

 

Parapiglia (Versione di ottobre 2019, da “Anterem” 99)

Diego Terzano, Intorno al parapiglia

Prove urgenti di sublimazione, proiettate verticalmente nel tempo – proprie e altrui; la resa di qualcosa in immagini, che rispetto alle attese di qualcuno permangono o rimarranno mute; e la tentazione di tenerle private, a un primo livello: salvo poi provare – tentare ancora – delle personae, che di quel plesso di esigenze si facciano mediatrici (o ermeneuti); e al massimo della dispersione concettuale, una dittatura della forma, distesa orizzontalmente? E ancora, forse, la ricerca di una comunicabilità in primis fallita, e via via rinegoziata: c’è, effettivamente, qualcosa da dire a qualcuno?

Fallisce, a dirla tutta, lo stesso tentativo – questo – di testimoniare il campo di energie di cui scrivendo ci si fa sfogo. Con ciò intendendo la comunicabilità e il fallimento comunicativo moduli scalari e coimplicati: reversibili; così come reversibili, a posteriori, si presentano la dimenticanza e la reminiscenza di ogni tentativo di dire, all’atto della rimodulazione testuale. Continuando a procedere per associazioni, e assunto che per chi scrive non si risolve ancora la dialettica tra possibilità e determinazione di una variante concettuale-formale, la divaricazione fra due cristallizzazioni testuali resta naturalmente l’isolamento di due momenti di uno scalare processo di indecisione, di delineazione del plesso tematico via via ingannato, a cui per sfinimento ci si arrende una volta attestata una possibilità minima di dialogo.

 


Diego Terzano (1993) ha compiuto studi letterari e filosofici a Genova ed è dottorando in Studi italianistici all’Università di Pisa. Si interessa al rapporto tra antico e contemporaneo e tra pensiero e poesia. Al centro del suo lavoro si colloca, in particolare, l’opera di Carlo Michelstaedter.