Andrea Breda Minello, “Berkana”, videolettura; note di Silvia Comoglio, Patrizia Dughero

Perché quando Berkana ornata di rami

Si innalza sino ai margini del cielo

Emana la tensione delle tue viscere

Dichiara un nuovo inizio:

 

Una mutazione del sangue per accoglierti

Come il Dio che porterà in dono

La testa spezzata di Fenrir.

 

Allora rinasceremo l’uno nell’altro

Ci scambieremo la pelle

Per essere il seme fecondo della madre terra.

 

Nota: Berkana è la Runa del femminile, simboleggia la Betulla. Fenrir è il lupo, figlio di Loki, che nel Ragnarok delle saghe norrene verrà ucciso dal dio Vidarr.

 

 

Silvia Comoglio per Andrea Breda Minello

Due dimensioni convivono nel testo di Andrea Breda Minello, quella mitico/divina e quella umana. Berkana, la Runa del femminile e Fenrir, il lupo delle saghe norrene, ucciso dal Dio Vidarr abitano i nostri spazi, sono presenze con cui misurarsi, figure che finiscono con il sovrapporsi alla nostra essenza. Ed è proprio da questo sovrapporsi che nasce un innesto, una correlazione tra l’umano e il mito che ci disvela il ciclo della vita racchiuso in inizio/mutazione/fine/rinascita. Ciclo, questo, che richiama a sua volta un altro mito, il mito dell’eterno ritorno.

In un testo dalla struttura compatta e dalla luce asciutta, l’umano e il mito, in un gioco continuo di rimandi, si incontrano e scambiano pelle per poter essere, come scrive Andrea Breda Minello, “il seme fecondo della madre terra” . Una fecondità che nel testo di Breda Minello si traduce, da un lato, in rinascita e in stretto legame tra il mito e l’umano e, dall’altro, in forte correlazione tra scrittura lirica e epico-mitologica.

 

Patrizia Dughero per Andrea Breda Minello

Con un colpo fendente tra terra e nebbia questa poesia incede, incalza, una quartina e due terzine, a ribaltare il mondo, destando al contempo nel lettore una certa fantasticheria sul sonetto, come un dolce ricordo, per la quartina d’attacco che sembra portare avanti una narrazione previa, qui tesa a circoscrivere il necessario mutamento, un nuovo inizio.

Poesia carica di visioni, per la sua atmosfera, un gelo rotto soltanto dai rami bianchi e luminosi di betulla, per l’“attesa” quartina d’inizio che si scarica sul suo ultimo verso, Dichiara un nuovo inizio:, per il passo epico e gli incipit di ogni verso, in maiuscolo, desueta maniera, e per quella dichiarazione: all’inizio occorrerà un cambiamento viscerale oltre che un’azione.

Poesia assertiva che attinge dunque al sangue e agli elementi viscerali stabilendo un’equilibrata tensione per l’inevitabile, “non possiamo più attendere”, sembra essere l’incitamento del poeta che ricorre alla primordiale lotta tra buio e luce, che ristabilisca il brodo affinché la parola continui in bios e nell’unione. Non possiamo più aspettare ma non possiamo arrenderci e allora il poeta “si fa carico”, e il suo carico è “ogni disperazione”, così “prende spazio” all’assoluto. Se via d’uscita non c’è occorre declamarlo (mi pare importante sottolineare che per il Premio Montano, sezione Poesia inedita, è richiesto un componimento “che costituisca per l’autore un momento privilegiato della sua ricerca, un testo che proprio nell’unicità trovi la sua ragione”); occorre guardare la bestia spezzata, la testa del lupo sacrificale con cui scambiare la pelle, per far rinascere una nuova umanità e perché la terra venga rigenerata. Versi che conducono a stupore assoluto, ma non si ammantano di silenzio, piuttosto di orme pesanti tra nebbie fonde tagliate dall’alitare di chi non desiste, pur senza fuoco a scaldare e nessuna fiammella che possa alimentare lo scambio necessario, soltanto un click che il volto epico possa introdurre nel nostro DNA.

Poesia epica antilirica, retta da un’apertura che contiene una domanda, sia causale che finale su un determinato accadimento, sembra quasi farsi beffa del canone e della scansione metrica, oscillante com’è tra versi alessandrini, fino al limite dell’endecasillabo sdrucciolo, intervallati in maniera atipica da settenari e novenari: inducono a pensare che anche la rima avrebbe avuto una giusta collocazione al fine di ristabilire il passo marziale evocato. Ma nessuna rima appare, mentre noncurante il poeta inneggia saldamente a un gesto eroico che ristabilisca vera giustizia fuori dall’umano, con una luce lunare riflessa nel pallore della bianca betulla, frondosa e poetica runa offerta. Noi lettori a raccoglierla, quasi indifesi, almeno coloro che non sono addestrati a una buona osservazione degli elementi naturali, veri protagonisti di questo componimento. Rischiando pure di essere risucchiati da un’epica che non ci appartiene (interessante, affascinante lavoro di contaminazione) quasi un manga europeo o un must da graphic novel, risollevati poeticamente dall’ottimo equilibrio di questo testo che dalla sua brevità trae forza e potenza, mentre i versi lanciati ondeggiano, e continueranno a farlo, tra grigie volute norrene, aprendosi al vento per spargere semi che, composti e segreti, getteranno basi sicure ad altri componimenti.

 


Andrea Breda Minello (1978) è nato a Treviso, dove vive e lavora come docente. È poeta, traduttore e drammaturgo. Ha esordito in X quaderno di poesia contemporanea e ha poi pubblicato Del dramma, le figure (Zona, 2015) e ora Yellow (Oèdipus, 2018). Come traduttore: Julien Burri, Se solamente (Kolibris edizioni, 2010), Pierre Reverdy, Sabbie mobili (in “Testo a fronte”, 2015), Anna de Noailles, Poesie d’amore (Arcipelago Itaca, 2019). Suoi testi sono usciti su “Poesia”, “Nuovi Argomenti”, “Versodove”, “l’Immaginazione”. Collabora con “Testo a fronte” e “l’avantionline”. Sta ultimando il suo primo romanzo.