Giovanni Turra Zan, da “Stanze del viaggiatore virale”, con una nota di Rosa Pierno

Giovanni Turra Zan, “Stanze del viaggiatore virale”, L’arcolaio 2008

 

Il viaggiatore è ingabbiato in una scenografia inscenata dal suo stesso corpo: “i pollici / hanno occhi di viaggiatore, hanno di un uomo / i movimenti prigionieri, le perdute stanze”. Nella carrozza dei pendolari ogni mattina si ripete il contatto delle membra senza riconoscimento. Corpi che non assumono un’identità. Che non possono rimettere niente all’altro perché privi di qualsiasi relazione, se non quella istituita dalla repulsione del sudore. Ma il viaggio è qui metaforico, perché investe l’intera vita: la scena viene infatti repentinamente rubata da interni domestici in cui due conviventi vengono fotografati mentre sono sotto osservazione “come due coleotteri nel loro documentario”. Corre subito l’obbligo, per chi redige la nota critica, di registrare che ogni frase nel testo poetico di Turra Zan subisce uno scarto, causa un soprassalto, denuncia il comune come paradossale. Insomma, una poesia quasi acida e corrodente, che reclama, perché attua, una critica al reale, lo infilza con gli spilli, lo stravolge perché lo vuole diverso. Potrebbe essere definita una poesia civile, tutta votata alla critica delle relazioni fra gli esseri umani: la base dell’esistenza: “ecco i vicini vengono al consiglio / degli intrusi, alle grida e alle indiscrezioni che stempiano, a mettere in piazza la pena che avanza, fino al dare volta.”, ma con quel senso di disperata consapevolezza data da una lucidità che mai arma depone: “quando bocca tace e stanzia fondi / per gli ingialliti ponti”. Non si può che restare invischiati da un uso così sapiente - chirurgico - di aggettivi che stravolgono usuali parole, di sostantivi che trascinano pur estranee qualificazioni. E, d’altronde, non ci sorprendiamo di fronte alla tenerezza o alla virulenza che efflora nel racconto dell’esperienza d’amore (“ degli affetti tollerato il carcere d’orti e viscere”), poiché una tale dirompente forza poetica, avevamo già compreso, non può essere che partorita da uno squisito, sensibilissimo percipiente, assoluto padrone dei propri mezzi espressivi. Raramente poesia denuncia complessità e contraddittorietà dell’esistere, insegnando contemporaneamente l’arte del vivere. E in questo libro accade.

 

 

dalla prima sezione

 

VI

un ciclo inizia calcando silenzi con la carta carbone,
con le impronte dei lemmi sul nastro della loro olivetti
trovato in una cassa dopo il trasloco del novantatré,
dove si leggono intere le ultime lettere di commiato,
il testamento del bene fatto.

 

XI

A Fabio F.

in quel corpo un fitto instaurarsi d’ossa
e le biglie da gioco rilucevano al calore
delle lampade d’estate. eccoti allora
evaporare, frizzando in alto per poi
precipitare, farti sempiterno muschio
tra i rovi.

 

 

Da Rimanenze

 

nella profondità del covo si vedeva uomo durare,
in equilibrio muoversi come in attesa di recitare
il dramma, scrivendo nello spazio la sua scena
necessaria.
sedeva cauto sotto il ciliegio, maneggiando
i fili e le ombre degli spiriti,
del non conoscere che lo rendeva intimo
al bosco delle rimanenze, alle vie nel buio.

 

Giovanni Turra Zan è nato a Vicenza nel 1964. E’ laureato in Psicologia dell’Educazione e diplomato al Conservatorio Musicale di Vicenza. Ha pubblicato Senza presso Agorà Factory nel 2005 e il volume Lavoro del luogo” con Fara nel 2007. Ha vinto il Premio “Poeti per posta” indetto dalla trasmissione radiofonica di Radio Due “Caterpillar” e da Poste Italiane nel 2005.