Ciro Vitiello, da “Finitezza delle cose o rose”, con una nota di Giorgio Bonacini

Ciro Vitiello

FINITEZZA DELLE COSE O ROSE

 

Possiamo subito osservare, iniziando dal titolo di questo poema, che se sono veri il senso e la percezione di “finitezza delle cose” a questi corrisponde però l’esplosione di un linguaggio che, frantumandosi, genera una parola poetica dalle diramazioni indefinite, inafferrabili nella loro totalità. Vitiello concentra la sua attenzione e la sua scrittura nell’urgenza di una voce che è lingua e suono dei sensi e dell’eros. Ma non si confonda questa poesia con ciò che comunemente si definisce “poesia d’amore o erotica”: nel nostro caso, dal centro discorsivo e propulsivo della relazione a due, dove le figure io e tu costruiscono la loro storia di passioni fisiche e mentali, si irradiano diversi percorsi significativi, con la lucidità, la passione e la coscienza di uno scavo interiore, al fondo delle tante implicazioni di chi sa cosa vuol dire stare nella poesia.

Infatti, nei testi che compongono il poema (che vedono al loro interno anche una storia e un sentimento del dire), si individuano alcune linee che concentrano la poetica in percorsi di pensiero tesi a raccogliere richiami di ogni genere - storici, sociali, politici, filosofici, quotidiani -, ma con una particolare attenzioni a quelli fondamentali e fondanti in poesia: Leopardi, innanzi tutto, richiamato implicitamente nel senso di dolore che attraversa l’adolescenza, dove “gli anni/sono/assemblati in voragini”; oppure nel più esplicito, anche se diversamente formulato, verso iniziale di una poesia in cui il malessere di vivere esplode e le illusioni fiaccano la ragione fino a svuotarla, mentre “chiaro e calmo è il mattino...”. Un’immagine che avvia però a un’oscurità, dove il corpo e la mente barcollano nella consapevolezza che qualcosa di indicibile c’è. Ma nonostante l’impossibilità di dire tutto e la percezione di aver perso l’inizio delle cose avviate dal tempo, il poema continua: si gonfia e scoppia in frantumi vitali.

Dalla pura e carnale “pinguedine folle, laida e sensuale”, la spinta della meditazione poetica raggiunge le vette di una scrittura che imprime una torsione alle forme istitutive dell’amore, legandosi, ad esempio, a sogni di ricordi politici: ad assalti e barricate, a vora- gini borghesi e inferni operai. Ma anche a riflessioni che affondano nell’oscurità e nella conoscenza che si dà in poesia: dal buio che “è il nulla delle forme” fino alla vetta del “pen- siero che crea paesaggi” e “recide l’esistente”. E questo percorso si attua con una naturalezza ta- le da far ricadere una trasfigurazione intellettuale (o ciò che appare come tale) nella sua realtà d’amore (possederti,/suggerti l’anima...), legandola, nello stesso tempo, ai primordi di una nascita nel mondo (cerco la tua prima/impronta, Natura...).

Si comprende, allora, che non manca niente di vitale ed esistenziale in questa poesia: la materia linguistica e la voce danno sostanza a una parola che ha origine, andamento e fine nell’interiorità del poema. Ma il percorso si snoda e va a cogliere altri aspetti che si parlano e si compenetrano. Facendo crescere la multiformità dei versi o deviando i toni verso una leggerezza più lirica, il corpo da amare, toccare, radicare e sradicare sembra svelare la sua natura “nello scintillio della pioggia”, dove anche l’ignoto è vita. Perché alla fi- ne, con la forza e la sapienza dell’immagine, il battito rallenta e lì dove “galleggiano i paesag- gi” lo sguardo punta a una visione più leggera.

 

 

I, fr. 8

...dell’adolescenza gli anni/ sono
assemblati in voragini...aumenta la sete/
di stagione in stagione è mondano godimento/
la radice dei sensi/ domina l’irta libido – sopra i tetti grigi
è assenza di passeri...un trastullo terminato appena ieri/
è già evo lontano. Nella pianura/ all’ombra della città/
carcasse d’auto sono totem di feroce sentenza/ metastasi...
|le idee non fluiscono più, non vale parlare dell’anima...
giacere è gaudente transito per chi
ha perso la moneta...non giova la
menzogna...tu sei acqua di fonte...

 

II, fr. 7

...io ho mangiato dell’albero e sono nudo del tempo
e delle malevole bufere/ per immagini scomposte il freddo
è l’alito della morte ancipite (non ho avvistato il fine)...
(adesso tutto è misurabile/ e inesorabilmente sospinto-
le vie si dissociano e fangose aggravano lo spirito- le vite
nostre di viandanti si giocano/ tra luce e ombra/ sulla fessura
(io a) una tavola seduto consumo l’ultimo pasto
prima di riprendere il cammino...
tutto è un momento

 

Ciro Vitiello, poeta e critico, vive a S. Sebastiano al Vesuvio. E’ stato redattore di Altri termini e ha diretto la rivista di letteratura Oltranza. Dirige presso l’editore Tullio Pironti la Biblioteca della poesia italiana contemporanea. Ha pubblicato, in poesia: Corpor.azioni, 1975; Ciclica, 1979; Apocalipse quattro, 1980; Cantico d’Erugo, 1980; Le resistenze, 1983; Suite, 1984; Accensioni, 1991; Rapimenti, 1992; Il gioco degli errori, 1994; Quisquis o delle solitudini, 1996; Origini d’amore, 2001; Il male sorgivo, 2001; La tenue armonia, 2003; Lunedì perduto, 2008. Per la critica: Teoria e analisi del linguaggio poetico, 1984; Teoria e tecnica dell’avanguardia, 1984; Idetica, 2002; Pensare la poesia, 2005.