Giovanni Campana, da “Pensieri sulla soglia”, con una nota di Giorgio Bonacini

Giovanni Campana

PENSIERI SULLA SOGLIA

 

La poesia, che è una prova di ascolto, e dunque un atto di sfida nei confronti nostri, del linguaggio e del mondo, è sempre sostanziata da un pensierosu cui nasce e che genera conoscenza. Ma è un tipo di conoscenza particolare (non lineare o assodato o consolidato) che si autocommenta in modo implicito, in profondità, per la natura stessa (segnata da una metamorfosi costante)del movimento meditativo che la parola poetica mette in atto. Nelle poesie di Giovanni Campana questa unicità, intima e discorsiva, si sdoppia in modo esplicito: le poesie, per così dire vere e proprie, sono accompagnate da altri testi che aprono e diffondono ulteriormente la gamma delle riflessioni e dei sensi.

Dunque non parole in più che vorrebbero, ingenuamente, precisare il significato (cosa di cui l’autore è perfettamente e poeticamente consapevole, perché significherebbe svuotare il dire poetico dalla sua capacità di trasportare un sapere e sovvertirlo), ma scritture che incentivano un senso infinito, che attendiamo e a cui attendiamo. Ed è proprio in questa doppia precisazione del termine “attendere” che si manifesta un aspetto forte, altamente significativo della scrittura pensante e poetica di Campana: dedicarsi, offrendo il proprio impegno, a un’attesa (sulla soglia) non passivamente, ma attivando una propria contemplazione del mondo. E lì percepire di essere dentro, di appartenere a un pensiero che sente di sperimentare l’inquietudine di una mancanza, individuale o collettiva, non di presenza, ma, più dolorosamente, di ogni mancanza: “Anche l’assenza se ne andò/ciò che non è non lasciò più alcun vuoto”.

E’ su questa mancanza di un vuoto, nel niente che ribolle nel mondo, ricco di sensi potenziali che scava la parola, che si fa voce e ricompone le tracce alla ricerca di un buio (quello che oggi c’è è “diminuito ormai irreversibilmente” ), di una tenebra nuova: non da superare, ma da attraversare per arrivare, forse, a qualche forma di luce. Un’illuminazione fioca, debole, ancora non lasciata dall’oscurità, ma certamente luce concreta, mentale o corporea, da abitare e interrogare. Questa è la tensione poetica che anima il pensiero scritto in questi versi: mai disgiunti dalla certezza che “sarebbe cieco il mondo/se non lo circondassero parole”. Ma non le parole ordinariamente circoscritte nel dire le idee sulle cose, bensì quelle tese verso un significato in crescita: che non sta in una verità, non sta in una certezza o in un sistema di certezze, ma in ciò che ci attendiamo quando ci parlano, quando ci dicono le cose vere al fondo di una continua ricerca di confini.

Il limite è ciò che permette al poeta di pensare oltre, di immaginare ciò che senza confini non potrebbe essere. Perché è in questa coscienza - il paradosso di un limite che obbliga allo sforzo e, dunque, non è limitante - che si attiva e si attraversare il poema. Una voce che respira all’interno di una scrittura che non smette mai di offrirsi alla lettura; uno sguardo che tenta un superamento e rende questi testi così capaci di generare pensieri da un pensiero mai chiuso, mai univoco o concluso; l’interiorità di una mente che non esita a soffermarsi sull’impossibilità di sapere, sui dubbi, sulla difficoltà di abitare se stessi continuando a porsi domande.

 

 

Dalla sezione Confini

 

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Era più fermo il passo sul terreno

quando l’abisso era dietro casa

e da ogni lato

ci chiudeva il cerchio delle tenebre

lungamente piangevamo

coloro che restavano inghiottiti

ora il buio è confinato in sgabuzzini e intercapedini

e gli abissi sono costantemente colmati

e per tutto c’è qualcosa

anche la morte si è indebolita

per questo vanno in tanti alla ricerca del nulla

presto le guerre avranno un periodo felice.

 

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Qui è il punto di molte soglie

infinite soglie

o nessuna

solo varcata, ogni soglia è tale

quanti valichi non erano valichi

questa soglia è tra soglia e non soglia.

 

 

Dalla sezione Parole

 

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Da più riposti silenzi

a volte a noi risalgono parole

da lungo destituite

in più tombali notti dissepolte

scorgiamo in esse antiche permanenze

-ritorni da epocali spoliazioni

dalla mortale prova del deserto-

appena vive un resto

(sepolcri smossi, in noi, le nostre anime).

 

Giovanni Campana è nato a Modena nel 1949. Laureato in filosofia. La sua esperienza intellettuale è dominata dalla durezza del confronto tra il riferimento religioso, sia pure incessantemente problematizzato, e la piena immersione nel pensiero filosofico ed epistemologico contemporaneo.