Mauro Germani, da “Livorno”, con una nota di Rosa Pierno

Mauro Germani, “Livorno”, L’arcolaio 2008

 

Col ritmo di una nenia o di una filastrocca Mauro Germani accumula parole e versi, i quali compilano la lista delle immagini, dei ricordi, degli odori, dei suoni che compongono l’identità della città di Livorno. Nonostante l’utilizzo di una sintassi lineare, non è privo di oscuro portato l’elenco: “A quale fine / queste parole superstiti, / questo singhiozzo di terra e di nulla?”. Forse, solo leggermente chiarito dalla poesia successiva in cui il tono nostalgico maggiormente s’apparenta con quello drammatico. Bacio e addio, sogno e vita, morte e ombra costituiscono le ferree coppie con cui si susseguono i passi d’una travagliata esperienza esistenziale. Senza soluzione, si direbbe, visto che la partita finale sembra giocarsi tra i vivi e i morti, o meglio con quello che dei morti resta nei vivi: “Questi nomi di morti nell’aria e i numeri che tornano per le strade dentro fotografie ingiallite.”. Quasi restasse come unica possibilità, per sopravvivere, il dimenticare, la tabula rasa, eppure, impossibile da realizzare. E, così, quasi naturale andamento insito nelle cose, il movimento successivo non può che essere quello di rimembrare, di riportare in vita nel ricordo: “Parlava il tuo mondo nella stanza / e tutto era come un bacio / dato per sempre”. Senza più dolore, ma con la certezza che quello è l’unico modo per far restare in vita la persona amata. Ma fra lacerti di visioni e fantasmatiche apparizioni, fra ricordi e invocazioni non sorprende che cada il gelo nella stanza, quando esse d’improvviso crollino: “E’ questa la sconfitta di Dio, / la verità perduta del tempo..”. Bisogna in qualche modo sopravvivere anche nel gelo della coscienza, nella inevitabile constatazione dell’assenza, poiché non si può ingannare se stessi a lungo: “E ancora scontare gli addii, una mano dopo l’altra nell’ombra, fino ad una terra nuova, una sposa davvero per pochi minuti…”. Inevitabilmente, perdere gli altri è perdere il proprio io. Anche se finché si riesce a pronunciare ancora una parola, la possibilità di esistere degnamente continua. Germani ci consegna una sorta di diario vuoto: diario dell’afasia, ma insistentemente, coraggiosamente, perseguito.

 

 

Dalla sezione Un Dio di niente

 

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Scriverò la storia dei morti, diceva,

l’eterna differenza della notte.

Saranno segni non più opposti,

doni forse nell’invisibile cielo...

 

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Io come niente, come nessuno.

Un graffio bianco a ricordare,

a dire perché in una stanza vuota,

in un ronzio di voci,

come un allerta di nuvole e di capelli,

come una discendenza di mani...

 

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Una casa per dire qualcuno oppure sempre.

Come a cercare un giorno,

una parola lontana, un tempo fermo.

Come trovare un’infanzia e una collina,

un attimo di terra, un destino vero,

nome e cognome in un punto solo,

una pausa infinita, un dio di niente...

 

Dalla sezione Come un destino

Ho aspettato, ho visto la strada, Natale tra i singhiozzi, il freddo, e questo male che non esce, che non parla di te. Una corsa senza nessuno, un abbraccio già perso dove tutto si incrina, mentre la città scivola in una meraviglia lontana, un battito dentro le vene, uno sguardo trattenuto dal gelo.

 

Mauro Germani è nato a Milano nel 1954. Ha fatto parte della redazione di “Schema” e nel 1988 ha fondato la rivista di scrittura, pensiero e poesia “Margo”, che ha diretto fino al 1992. In poesia ha pubblicato L’attesa dell’ombra, Schema 1988; L’ultimo sguardo, La Corte 1995; Luce del volto, Campanotto 2002.