Allucinazioni Urbane: un saggio degli studenti del Liceo Classico “Maffei” sui vincitori per l’edito

Studenti del Liceo classico “Scipione Maffei”

Premio “Lorenzo Montano” 2009

Allucinazioni Urbane

La città, attraversata da canali di bitume che raccolgono i rifiuti di un’umanità senza più aspettative, troppo presa dalla fretta di esistere.

Con in mano il biglietto salivano senza parlare.
L’autobus si riempì lentamente.
La città sfiorata, e il cielo, il fiume, quello che c’era all’interno, tutto era grigio scuro, come di pietra. I loro volti e quelli degli altri passeggeri, la stazione davanti alla quale passavano in quel momento, tutto era tinto di un unico colore. Uno spesso vetro opaco li aveva imprigionati. Quelle strade che conoscevano così bene e che correvano loro accanto appartenevano allo strano mondo di pietra nel quale la loro vita abitava.

“Buongiorno..”
“Buondì!”
“Salve”

- Prendo questo stesso autobus dai sedili vecchi e tarlati tutte le mattine. Spesso l’imbottitura esce, una frolla gommapiuma gialla, quasi occhieggiante, mi preme sulla schiena.

Tutte le mattine, lo stesso guardarmi intorno e poi volgersi fuori. Ma dico, nessuno ha mai notato quanto sono ingombranti le persone, compresse in uno spazio così? Eppure esse sembrano prediligere questo sicuro senso di soffocamento. Escono tutti dalle auto, quasi esitando a immergersi nell’atmosfera tagliente e invernale delle sette di mattina, senza guardarsi intorno, senza emettere suono. L’aria aperta li ferisce, è chiaro, i colori delle cose li irritano, i profumi li confondono: ogni sera vedono i loro sogni passare sugli schermi, ma la realtà è sempre più grande di come se la possono aspettare. Compiono il tragitto correndo, presi nei loro freddi meccanismi: tornano al chiuso quanto più velocemente è possibile, con gli occhi iniettati di sangue. Se solo si avesse il coraggio di guardare dritto in quelle loro agghiaccianti pupille... Alcuni ormai non hanno più problemi, soffrono e basta, come fosse il loro unico hobby, il solo lavoro, il mestiere più degno.

I loro passi segnano il ritmo che spinge avanti la città, in un movimento perenne: c’è spazio nelle sottili fatiche dell’attraversare per un attimo di sospesa calma?

Già: bisognerebbe fare una storia, andarla ad estrarre come una scheggia, per ogni ombra passante che vedo dall’autobus, in fondo al viale, tra questi palazzi. Dare qualcosa dal centro, inventare che ci sia centro, dissonante distrazione, che colma il vuoto nel vortice delle azioni. Di quale storia si parli non è chiaro, ma renderla mia è rallentare, andare in un sogno qualsiasi, trovare una via di scampo. No, anche oggi non moriremo, nonostante i miei passi siano così lenti e pesanti, nonostante continuiamo ad andare verso il solito posto, anche se gli edifici sono terribilmente grigi. Camminando, non posso che guardare asfalti, misteriosi e levigati, che hanno in sé le immagini di una folla che si ferma, di vecchi che rallentano il flusso, di giovani che pensando sono costretti a fermarsi.

Sono fissate lì, addormentate in ciò che ancora tiene tutto fermo e fissato, in ciò che conosce l’eco dei nostri passi, il suono dei nostri pensieri: questi gusci di cemento, appena più longevi di noi.

- Piove. Perché non sono rimasto a casa oggi? Il chiasso è soffocante. Guardare la pioggia che riga i vetri...no, questa città è troppo grande. Voglio tornare a casa...voglio tornare da te. La tua bocca mi impone il silenzio. Ti immagino. Il fiato, il colore dei capelli, l'opera dolce delle labbra, le ciglia, il bianco aspetto. Vedo la stanza dietro la finestra, il lume acceso come un segno. Le pietre, il muro, i letti umidi sfatti, i visi pianti. Mi giunge l’impronta della tua voce anche se non posso sentirla, è un tenue tintinnio di chiavi in tasca - sto entrando. La camera, piccola, nuda affonda nel sonno. Un lume al centro colora gli oggetti, cade l'ombra addosso al muro. Io lo sapevo dal muro caldo di luce che questa casa vuota ci aspetta; hai fiato a dire in bocca che il domani qui va oltre il tempo. Tutta questa smemoratezza, qui, in questa città! Intorbida i colori, stacca i segni ai muri, imprime l'apparenza. Solo l'aria ferma mi dà pace, quanto basta alla figura che ritorna a farsi viva, nell'immagine intravista. Veglia la radice sotterranea. Uno tace, l'altro parla, ci guardiamo le mani. Lascia che a dire siano le cose...

- Dietro il vetro dell’autobus perlato sotto ipnosi al ritmo di metronomo scandito dal tocco di rasoio del tergicristallo, il parabrezza schermo e davanzale alla mia immagine. Un cielo tutto sgorbi sbaffi immobile. Ma quest’alba sarà la stessa per chi di loro non avrà dormito? Vorrei facesse di nuovo buio per continuare la mia corsa, fuga dal mondo, e poter di nuovo ritrovare quel mondo a rovescio, quando davvero l’asfalto fa più luce di quel cielo sottosopra, cieco sotto l’ingombro degli alti cumuli di nera ramaglia e nuvole, quelle che non pensano e passano. Tutte queste persone, stipate una sull’altra che corrono, tutte, verso l’immortalità dell’estinzione attraversando la città, quartieri interi senza soluzione aggirando acquitrini e parcheggi selvaggi zone morte. Morti, precipitati ridotti ultimi nella decrepitudine dell’arte, sono io il vero residuo? O solo il più colpevole per non aver visto questo gioco al massacro, il massacro della storia. È chiaro il mondo oggi e il panorama di rifiuti irrefutabili contrassegno di civiltà sacrificato cammina, fondale delle nostre azioni ferme. Dalla città recondita ad ogni bocca di fogna o caditoia in nerofumo un drappo, uno straccio di prova estorto fa barraggio e assorbe la risacca di liquami. Tutto scorre attraverso e ti senti spettro, riflesso dell’infanzia di un’infanzia.

Oh lady la realtà è apparenza e l’apparenza…

(liberamente ispirato a:

La distrazione” di Andrea Inglese,
L’opera racchiusa” di Federico Federici,
Le omissioni” di Ottavio Fatica)

Giulia Cecchinato (3 I), Chiara Gagliardi (3 I), Maddalena Giglia (2 I), Benedetta Nonis (2 I)