Annarita Zacchi, una poesia inedita, “Cantionum inventor 2”, nota di Ranieri Teti

Annarita Zacchi ha scelto un titolo latino, e bellissimo, “Cantionum inventor” per un testo decisamente moderno nel suo svolgersi, fino alla sua spiazzante conclusione.

Solo in poesia può accadere che un gesto tanto quotidiano, quello raccontato in questi versi, abbia una trasfigurazione così ricercata?

Solo in poesia può succedere, all’improvviso, di “raccogliere pezzi di ciò che sembrava indivisibile”? O di vedere una collina ad esempio viola, e l’oro, scintillante in ogni immaginario, cupo?

Annarita Zacchi non possiede solamente forza visionaria, ma in questo testo riesce a produrre, assolutamente fuori dalla metrica classica, una musicalità incantatoria e mutevole, un ritmo esattissimo che alterna versi brevi e lunghissimi, che assecondano le fasi del sonno e forse del sogno.

C’è qualcosa di onirico.

C’è qualcosa di ipnotico, che non deriva solo da alcune ripetizioni dello stesso incipit, è contenuto in maniera decisa nel suono complessivo del testo.

Nei vasi comunicanti tra la vita e la scrittura, sulla soglia che unisce e separa, questa poesia riesce a raccontare “giorni inspiegabilmente netti / come se il fuori contribuisse al nitore del dentro”.

 

 

cantionum inventor 2
 

questo non significa che non abbia una sua tana

dove si è trattenuta con resti e nuovi incontri

in questi giorni inspiegabilmente netti

come se il fuori contribuisse al nitore del dentro
 

imparare a dilatare la rete e da lì

infilare una mano a raccogliere pezzi

di ciò che sembrava indivisibile
 

questo non significa perdere la vista

non sentire l’avvicinarsi dei corpi anche a distanza

dalla collina viola, si sporge verso di lui

nell’ oro cupo cala con un'altra corrente

più calda, trovata e ritrovata nel tempo
 

questo non significa cadere addormentati

lei porta e riporta le ciotole

piene e poi vuote, va e viene tra il fuori e il dentro

questo le ha richiesto nel tempo di non distogliere lo sguardo
 

non è detto che l’amore accudente sia sonno

sia solo sonno. Forse lo sguardo che lo coglie è nella nebbia

non è detto che la donna - la stessa - sia addormentata,

lei scrive e fuori è molto buio, scrive nel nero e questo è pauroso

e se è pauroso significa non piatto quanto si crede, quassù
 

le notti passate scuotevano il corpo, il vento lo frustava

occorreva afferrarsi al letto, legarsi a un ricordo di pace

e non era detto che tutto ciò fosse solo male,

la donna sembra portare la ciotola ancora piena,

mentre l’altro pare sazio, ma questa

non è detto che sia la conclusione.
 


Annarita Zacchi è nata in Garfagnana e vive a Firenze.

È insegnante di italiano a stranieri all’Istituto Universitario Europeo di San Domenico di Fiesole (EUI) dove tiene anche laboratori di scrittura, camminate letterarie ed organizza eventi legati alla poesia e alle arti.

Lavora inoltre come volontaria di corsi di lingua italiana a rifugiati e richiedenti asilo per la Caritas di Firenze ed altre associazioni.

In passato, ha lavorato come giornalista e redattrice presso quotidiani e case editrici.

Per la poesia, oltre a Rotte Terresti ha pubblicato Voi e lo sparso, Chipiuneart editore, 2015 Roma. Suoi testi sono stati pubblicati sulle riviste “Semicerchio” e “Clandestino” e nel volume collettivo Varianti urbane, mappa poetica di Firenze e dintorni, Damocle Edizioni, Venezia. Ha realizzato letture sceniche da raccolte proprie, tra cui Lavoro e antilavoro. Sogno dell’insegnante errante, con suoni, video e registrazioni di Leonardo Gandi. Collabora a riscritture poetiche e letture sceniche da testi classici, come Genesi e Qohelet, a cura della poeta Elisa Biagini.

Alcuni testi ed informazioni nel sito web di Annarita: http://annaritazacchi.weebly.com/