Daniele Bellomi, inediti da “Ripartizione della volta”, con una nota critica di Giorgio Bonacini

ripartizione della volta

(opera prima)

 

nistagmi: tre movimenti involontari degli occhi

 

 

*

si vede la media di un cielo sereno, il sole
al meridiano e alle lune la fiamma
			 di candele a paraffina
il filamento di tungsteno		          penzolante
		 dalle ampolle a gas: ho avuto
con un solo movimento
			  il posto dell'arciere
ho vomitato anche da morto il fotogramma,
					         nell'arco
degli elettrodi ho segnato il cratere positivo,
					         eppure
è rotta la sensazione luminosa, il flusso
    che ha detto
		di non rimanere ora salta

perché non sbaglia nessuno a trascinarmi via,
a non usarmi per guardare		           non si unge

un re di questi tempi senza sporco sulle mani;
non ho visto		non ho sentito		non parlo

non reato allora ma segni e convoluzione, trattamento
delle immagini più o meno di favore o instabile

		non so niente di questi soldi non miei
che porto in mano, non più nemmeno

l'arco che scarica lo xeno a terra		 l'odore
che c'è di radiazione: non si passa		il vaglio

con il vaglio, la vista come curva in un fuoco,	il fuoco

è il medesimo



**

			l'immagine che si gradina, si sgrana,
rimuove la sfocatura
			non vi serve a costruire: 	        osservate
direttamente
                    dai vostri occhi il movimento accidentale,      il rumore
casuale,
	occidentale delle fibre, il reticolo		        colpevole,
occhi e carne,		il montaggio finale
	che squassa via i semi e il cristallino: 		

le persone sono sconosciute, quelle 			        di anni fa;
				       guardale ballare
serenamente, rivedile come 				        sono ora,
			       prova a riconoscerle					
per la pellicola che salta 			   e ritrasmette 		
in successione, si scansa		    	   sulla pista, prova

a riconoscersi come noi     il tramite 		   è il divano, la fissazione 	
in uno schermo;
		  a cose passate, a cose che         non sappiamo quando
ritornare: ripetile ancora 				       se non puoi



***

non lascerò
	      che mi si tocchino le cornee, 	a meno che
	      tu non me lo dica, ponendomi      dei pesi; 		
per l'entità
	      di questa depressione che attende 			
il bulbo, lo varco sui millimetri		elastici
della deformazione; di forza 			in forza
meccanica
	      si tratta sempre di un ricarico 	dei circoli,
di uno sgravio
	      dei getti d'aria che lasciano 	le cicatrici,
i segni screpolati
		  delle tue mani quando guidi,
						ad esempio,
l'essere magari
		una tecnica ancor più sicura
per vederti sola; se una lente			permette
la superficie, 		         la vibrazione riflessa
in un segnale, non voglio che ti stia a contatto,
perchè aspetto un certo
			 acconto delle pareti, 	ma non più
di questo stimolo
		   irriflesso



****

non è uno solo il battito o il rumore
più sordo dei canali
                        avvitati, dei ritorni
innalzati alle aperture,
                              e le chiavi girano
nel montare insieme le parole


(fra poco, adesso, dopo, perso, fra di noi)






da distimie: quattro variazioni disarmoniche sul tono dell'umore   


*

caffè in grani, secco:
		        crudo a somiglianza
di qualche malattia visibile; 		le vetture (i cambi,
simili a scheletri
		 fibrosi) prendono alla gola:
nuove fasce di prezzo,			di occlusione, nuove
tensioni tangenziali per uscire
				e così moduli elastici, capelli,
sottintesi della lotta;

con questa quiete 		che si nuclea, le immagini
chiuse nelle urne,
		    artefici come in ogni caso
di una germinazione
				(sembrando due tratti
cervicali in cui il diaframma
si interpone)
	        sono litanie, lamentazioni, un devastare

ci sono angoli 		esatti per il rollio, di sufficiente
devianza per pulire
		      gli pneumatici, la terra come
soffio di organi cavi 			accorciati
ad altri ordini, il prossimo
			     allungamento, tra quei segni:
in quella direzione, con la stima
del litio, degli occhi, la mente 			è quel limite,
il modo che più perfetto 			ho inteso:
c'è chi scocca
	         un deserto e larghi spazio 	di terreno,
chi i transiti
	      per gli dei delle soglie, tutelari che sciolgono
l'autorità paterna
		  chi, per immensi culmini, arie
senza inizio, vede
		   torsioni senza termine alcuno



**

non l'amnesia desiderata, il vuoto 		
				     delle sacche
minime, amniotiche, 				ma guaine
e guaine
	 a dividere 	        nemicamente, 	deridere
la voglia
	  dell'abbraccio, 			il progresso 		
in questo stato	di 	        locomozione: 	l'errato
governo 		        della cellula
semicircolare, 					incidentale 		
più di noi


gli orli si sono striati: 				il cambio
va fatto
	nei giorni altri, alterni, meno 		sui vestiti
nuovi,
	che ancora tengono senza ispessimenti,
ripiegano
	   giunzioni intermedie 		all'inchino


quindi un microsisma 			o i dieci
somiti dell'embrione:
		         aderenze		come abbozzi
primitivi ma pronte
		         a cambiare, 	far sparire
ciò che varia l'inizio 			
		         del flagello
o la mobilità del passo, 		una cerniera 	
al mondo



***

(impossibile la creazione
			  di un cratere dal globulo retratto
il coagulo:
	    ci sono solo gengive, 		soffiaggi
ed estrusioni alla difesa 	 immunitaria,
					         ma la guardia
in piedi è un canale per la levità)

disconoscere
	         le zone di passività, quindi
il pugno elettrico 			   la separazione alfa
		   beta e gamma: 				   
				   i liquidi bombardati
di particelle 					sbordano
	      si fanno sacri al proprio calco 		

si può ridurre lo scheletro,
			      non l'ultimo
					       corpuscolo
del sangue, l'errore di libellula 		       invischiata
da una rete,
	      né il ciclo di krebs 	       in propaganda
di uno sforzo



****

e finalmente il battito
                          cerchiato di rumore,
ponteggi alzati in tempo
                          e l'altro è il discorso
che facciamo              e noi che siamo intatti
nel montare insieme le parole


(adesso, lo stesso, resto, ciò che è perso)




ripartizione della volta 

adesso devi andare allora osserva il bianco di lesione in cicatrice 
per la notte estesa altrove fino al campo ottuso dello specchio 
andata avanti sui chilometri senza ritorno per distanze appena
appresa dalla luce e pensa a ciò che non succede se non guardi 
assorto verso il punto che non circola degli astri o per le sorti 
di una delle mille attenzioni verso il moto nell'idea che prima 
o poi dovrai porre rimedio all'anomia della visione e suturare 
ogni passaggio assiduo per colpi e colpe andando a vuoto 
ad iniziare dalla retina mancando agganci a corpi erranti 
appesi sulla volta e pure avendo scorte proprio al centro 
della via a terminare l'esistente per se stesso o per te solo 
osservi un'altra via di sorta in cui rimane tutto per cosciente
remissione o inalterabile dai moti ai modi opposti e stabiliti
dentro mondi di persone assorte e sillabate in questo niente
in questo breve tempo che non risente di attrazioni e desideri 
cosa fare del consulto della divisione in brani e tracce disperse 
per gli anni di distanza per quello che non viene mai da solo 
e solo allora interpretare per predire nella pietra per qualcosa 
che non potrà accadere se non in altro caso di effetti sentiti 
o attraversati e notazioni spinte fuori per inerzia pur sapendo 
cosa fare e se non implicarsi in opposti e rotazioni mascherate 
dagli sbarramenti adesso devi andare e indaga il fegato e oramai 
il poi non è più il dopo smarrito che grida nell'abito che smetti 
o appena smesso fermato dopo lunga osservazione delle stelle
grida ancora in cerca del reciproco per malattie degli occhi
o le ferite e il mare gonfio di aria estratta e soluzioni dentro 
al vuoto in cui vederti solo a far barriera da percosse e fenditure 
rese adesso feritoie aperte e imposte nelle viscere senza temere
che gridando dietro non si veda senza luce e poi soltanto 
invano o il vano come nuovo punto da cui parta un fuoco
atteso per bruciare arreso al ricevente della parte giusta
in sfregio al posto non più possibile ma così immobile conta
mai davvero realizzata credendo in tutto ciò che potevamo




***

È nel principio del suo percorso materiale, che la scrittura unisce in sé la concretezza di cosa linguistica e il concetto di essere mentre struttura il suo fare, in uno sviluppo di autoconformazione che stabilisce, senza supporti ingenuamente referenziali, ma consapevole dello spazio e del tempo in cui agisce, il suo autonomo andamento. E proprio questa sembra essere la parola poetica che Daniele Bellomi sperimenta: una partitura spiazzante, un vero e preciso versamento che procede dentro un’esistenza di linguaggio che è l’esistenza in sé. Ciò che accade – se qualcosa accade – è frutto dello scorrere in grafia di una forza materica, di un rilievo, di un attrito significante con una valenza tale da far sì che la contorsione di senso divenga la sua energia.

Un torrente, dunque, che non è però un flusso di coscienza, ma un andare del pensiero linguistico che materializza le sue figure, le sue schiume, i suoi corpi erranti. E così come alcuni titoli delle sezioni rimandano a barcollamenti, a strabismi saltuari, a disagi, a un disequilibrio percettivo – situazioni dunque che obbligano a una costante, faticosa e vitale attenzione – allo stesso modo “il verso terminale del discorso” è sempre aperto sulle cose che iniziano a muoversi: a respirare nel mondo che questa poesia riesce (anche liricamente seppur in modo trasversale, sfibrato, deconcluso, sbordato) a narrare.

Ed è qui che gli agganci sul reale si allungano e nello stesso tempo si sfilano dalla realtà che, contrariamente al vero oggetto materiale, a cui la conoscenza dà senso e da cui incessantemente attinge, è solo un dato parziale.

Questa poesia, dunque, sceglie una conoscenza che prende avvio dalla scrittura e con essa si alimenta. E se è vero, come si dice, che il poeta sia scritto dal proprio linguaggio... allora il nostro autore ne è un esempio. Nella scrittura egli percepisce la necessità dell’urgenza e della lucidità e l’intransigenza volontaria della sua significazione: fino al punto di toccare ed esteriorizzare anche le sfumature innaturali del senso. Perché come dice Bellomi, con un’ ambiguità lessicale efficacissima nel rendere la polidirezionalità del linguaggio poetico, “non c’è verso/che ci abitui al fondo”, anche pensare che qualcosa ci elevi nel pensiero e nel suo riconoscersi fuori dalla lingua, è un’ illusione. L’unico sapere che la poesia può avviare a processo è quello che lei stessa mette in moto con il suo dire. Forse è una consapevolezza estrema, ma è la certezza di provare, scrivendo, l’andamento mentale che si affaccia ai limiti dell’essere, con tutte le sue possibili linee di percorso e di demarcazione. E questo significa sperimentare l’oggetto/lingua a partire dalla sua materia: la concatenazione fonica e grafica nella produzione lineare di versi, che non può però risolversi completamente nella metamorfosi esteriore che produce il suo soggetto. Il tratto distintivo poetico, dunque, è destinato a non avere compimento totale, né per via metaforica né letterale. La forma/scrittura scava continuamente, aggancia e destruttura, abbraccia e disperde e, con la sua forza compositiva, osserva sempre, nel bianco della pagina, un movimento che procede “di lesione in cicatrice” e sempre accoglie “il verso che le sta di fronte”.

 

 

Daniele Bellomi, nato a Monza il 31 dicembre 1988, studia Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano. Ha seguito il Corso di Poesia Integrata, nel periodo 2010-2011, sotto la direzione di Biagio Cepollaro. È co-fondatore del blog di poesia e scrittura non-narrativa plan de clivage. È autore dei blog asemic-net e eexxiitt. Suoi testi sono apparsi altrove online su «Poesia da fare», «Niederngasse», «Nazione Indiana», «Gammm» e «Lettere Grosse». Presenta qui la silloge inedita ripartizione della volta, sua opera prima.