“Un doloroso desiderio” su Giovanni Infelìse

Giovanni Infelíse, “Dépassé”, Book Editore, 2011, pp. 71, euro 12,00

 

Un doloroso desiderio

L’oggetto o, se si vuole, il protagonista di “Dépassé”, complessa raccolta di Giovanni Infelíse è, a mio avviso, l’inarrestabile scorrere del tempo, il suo procedere senza sosta dal passato verso il futuro attraverso il presente, il suo essere intimamente parte dell’uomo secondo lineamenti di memoria, di senso del qui e ora, di aspirazione, di attesa, di desiderio, di disinganno, di dolore.

Il poeta vive la dimensione esistenziale in maniera molto intensa ed evidente è la sua determinazione a renderne testimonianza.

Ma, come testimoniare?

Fino a qual punto le parole possono essere considerate appropriate?

Quesito di enorme portata che non scoraggia il Nostro, come dimostra il fitto dettato.

Possiamo utilizzare in modo diverso il linguaggio, possiamo modificarlo, ma non possiamo farne a meno.

Non è una condanna, è un’ineliminabile condizione della nostra vita.

Infelíse, così, non rinuncia al dire.

Il suo è un dire prosodico ed evocativo.

Una sorta di poetica offerta di sincera fratellanza consente al lettore di non sentirsi estraneo a un articolato flusso idiomatico, d’immergersi nella peculiare densità di una pregnante atmosfera.

-Se sono qui in mezzo a voi, quel voi è già un noi- dice il poeta coinvolgendo e coinvolgendosi in un tempo esistenziale coincidente con la vita stessa.

Leggiamo:

“Parli di un sacrificio ebbro di disperazione,
una dura prova sragionando allarma
il tempo dell’altro”.

Esiste non soltanto il mio tempo, ma anche quello dell’altro: il rilevante problema che si pone, perciò, riguarda l’impegno necessario a entrare in rapporto, a comunicare.

Il contatto con l’altro richiede disponibilità, esige qualcosa di più, qualcosa che, aprendosi al diverso

“è tutto ciò che allontana
dalla consuetudine e dalla devozione,
da una desolata certezza”.

Il tempo dell’auspicabile dialogo è dunque nostro e altrui.

Siamo di fronte a una possibile perdita o a un eventuale acquisto: c’è un rischio da correre se non si vuole vivere nella “desolata certezza” di uno sterile individualismo.

Lo scenario non appare per nulla sereno, poiché implica un esporsi dall’esito incerto:

ogni decisione, per quanto ponderata, partecipa di una natura aleatoria che, ci accorgiamo, permea tutta la nostra vita.

Prenderne atto, tuttavia, non significa necessariamente cadere nel più cupo sconforto.

Di fronte all’ineluttabile accidentalità di noi stessi e del mondo, Giovanni scopre nell’incertezza fiduciosa un atteggiamento capace di attenuare l’inquietudine:

“Resta il dubbio a offrire un’oscura calma,
una trepida sorgente che s’apre al pelago
e all’abitudine di amare il giorno
che a te mi porta con dolorosa gioia”.

Quasi una dichiarazione, resa particolarmente efficace dall’ossimoro “dolorosa gioia”.

Siamo al cospetto di un dubbio non sterile, tale da costituire un àmbito in cui prendere respiro e una tregua da cui ripartire, un dubbio che, da solo, non condurrà l’umana specie a condizioni di pacifico equilibrio, ma che, in ogni caso, avverte il poeta, potrà essere d’aiuto lungo un percorso

“in cui ognuno resta ciò che era:
un desiderio doloroso”.

In tali non tranquille circostanze è presente, però, una consapevole speranza:

“Ora siediti e parla,
siedi vicino e parla”.

Sta a noi, anche se non siamo seduti l’uno accanto all’altro, porre in essere una relazione per via del linguaggio: occorre cogliere e sviluppare al meglio simile opportunità.

Quale poeta, del resto, non crede nella parola?