Ultima pagina: Giuseppe Martella su Anna Chiara Peduzzi, vincitrice del “Montano” 2020

 

Ci viene incontro nudo, inerme, questo testo di Peduzzi, quasi privo di paratesto (note, eserghi, dediche, divisioni in parti, titoli delle liriche) e di un intreccio lineare, con tanto di peripezie, nodi e scioglimenti. Soggetto invece a una serie di minime, continue variazioni di tono, ritmo e prospettiva nelle diverse liriche, a formare quasi tessere di un mosaico o facce di un prisma che rifrange la luce, proiettando molteplici adombramenti sulle figure esplorate.

Esiguo e prezioso, caustico e guizzante come lingua di fuoco che illumina e riscalda ma non si lascia afferrare e comprendere se non a rischio di ustioni: “all’improvviso accampata intorno al fuoco/ di inaudite parole scintillanti/ aggredisce il silenzio e fa irruzione/ come un vento caldo che spalanca/ le rime doppie il suono dei metalli/ così della fiamma iniziale non resta che l’assenza/ nell’incavo dei versi rifiutati/ l’eccidio dei pronomi personali.” (22) Una iniziale enigmatica dichiarazione di poetica che spero si chiarisca nel corso di questa lettura,

di cui la Poetica del fuoco di Bachelard potrebbe forse offrirci alcune chiavi. Ma più in generale è opportuno tenere presente l’influsso del pensiero e della poesia francesi del Novecento, in particolare quello di poeti come Yves Bonnefoy o Francis Ponge, col suo “partito preso delle cose” che sembrano farsi e disfarsi sotto i nostri occhi ma a nostra insaputa, come se non avessero bisogno di essere percepite dagli umani e vivessero una vita propria: arcaica, cangiante, enigmatica (“la cosa che di noi non ha bisogno/ per apparire e imprimersi nel mondo”: 21). Pura potenza che solo attende la parola che la nomini per passare all’atto, per assumere una forma semplice e necessaria (“non dette non esistono le cose/…restano inoffensive ad aspettare…infine necessarie e nominate”: 19) Ma anche le parole appaiono poi qui come cose fra le altre, indipendenti da intenzioni umane.

Proprio il dramma di tali parole-cose costituisce l’oggetto del nostro discorso, la cui nudità e candore ci lasciano a una prima lettura interdetti e stupefatti, soggiogati e curiosi. A soccorrerci ci viene incontro il titolo, “Figure semplici”, che suggerisce in prima istanza quelle della geometria euclidea che abbiamo appreso fin da piccoli: triangoli, quadrati, cerchi; cubi, sfere. Tuttavia, a me pare, che questo titolo contenga anche un’intenzione ironica, un dire altro, molto altro, ciò che c’è da scoprire nel corso del testo. Perché in che senso è da intendersi la parola “figure”? Geometriche certo, ma forse si tratta anche di figure del discorso, o piuttosto di quelle “forme semplici” di cui scriveva André Jolles: l’oracolo e il proverbio, il motto e l’aforisma, la leggenda e il mito, che si ritrovano nelle tradizioni popolari alle radici della nostra cultura. Tracce di un passato dimenticato, cellule di un discorso avvenire. Ma anche infine qui si tratta delle figure di una fenomenologia della percezione e della memoria che la nostra autrice ha perfettamente assimilato dai suoi maestri francesi, Ponge e soprattutto in questo caso Bonnefoy, con cui ha certo una grande dimestichezza avendone anche tradotto le opere. Proprio in questa “comunità dei traduttori”, per dirla proprio con Bonnefoy, bisogna situare l’opera di Peduzzi, cioè in quel lavorio continuo, carsico, di restituzione di un senso e di una presenza alle cose, attraverso parole che non appartengono mai del tutto a una sola lingua e che con le cose congiurano nel sottobosco della percezione (“L’impoetico intreccio vegetale”: 24; con le sue “agitazioni di cellule e membrane”: 27) – facendoci udire il loro brusio, come un rumore di fondo da cui le parole a lungo cercate, arrivano all’improvviso come battendo “dei piccoli colpi di martello contro la superficie del reale, sino a sbalzarne, come da una lastra di rame, la forma.” (Benjamin): l’annuncio laico di una sempre possibile rivelazione. Questa similitudine vale bene a caratterizzare l’opera di Peduzzi come quella di un incisore che forgia con lievi ritocchi una materia incandescente, per trarne forme esatte e preziose.

Ma poi “semplici” in che senso? Secondo il criterio della misura che regge la geometria euclidea o quello della deformazione continua, senza strappi, sovrapposizioni o incollature, che regge la topologia, una delle branche più feconde della geometria superiore e che per essere una scienza delle deformazioni è la più simile alla poesia, intesa nel suo senso originario e artigianale di “manipolazione” (poiein). Così per esempio in topologia un cubo e una sfera sono due oggetti omologhi in quanto da un materiale malleabile come il pongo, mettiamo, l’uno si ricava dall’altro senza strappi o incollature. A me pare che l’analogia topologica sia la più feconda per interpretare il nostro testo che simula nel suo complesso proprio un spazio di trasformazioni aperto, senza confini né direzioni, dove, tolte le incrostazioni dell’abitudine e del linguaggio, le parole e le cose si fondono in forme sempre nuove, impercettibilmente diverse, sotto la fiamma ossidrica di un demiurgo impersonale che si industria di creare un mondo in assenza di Dio e della storia, in una sorta di atmosfera quasi gnostica. Perché la semplicità annunciata non riguarda certo un linguaggio adamitico: un eden in cui le cose perfettamente create da un dio antropomorfo aspettano solo il loro censimento da parte del primo uomo, quanto piuttosto uno spazio fluido dove cose e parole galleggiano in uno stato larvale, attendendo di fondersi in un synolon, in una restituzione del pleroma dimenticato.

Lo spazio del testo infine, quello tipografico bidimensionale, è qui esplicitamente aperto, senza un inizio e una fine marcati, senza titoli e eserghi, senza uno sviluppo di alcun tipo. Dove ciascuna lirica costituisce la cellula di una micropolifonia delle parole-cose, una perlustrazione dei loro adombramenti, una serie di intagli e affondi in quella “carne del mondo” (Merleau Ponty) che pare offrirsi nuda alla esplorazione dell’infraordinario.

A costituire una minuziosa, estesa epoché fenomenologica che coincide con la s-composizione geometrica del mondo ricevuto in “figure semplici”: “Rifletti alla riduzione algebrica/ della vita ordinaria in diagrammi/ ogni punto in esatta corrispondenza/ allo stato del mondo/ alla sua essenza/ non più estrarre col forcipe un senso/ ma disegnare a matita rette e curve/ e numerare il multiplo e l’immenso/ in figure osservando” (26)

Per chi auspica una poetica dell’impersonalità, questo testo costituisce un esempio luminoso. Ma come osservava T.S. Eliot a suo tempo, per ottenere tale risultato, l’autore deve averne avuto una ricca su cui a lungo ha lavorato.

 

Alcune osservazioni di ordine strutturale, per concludere.

La versificazione è scorrevole. La prosodia presenta una serie di variazioni minime intorno all’endecasillabo: novenari, settenari, quinari, ma anche talvolta versi di 13, 14 sillabe, a sottolineare fasi diverse di quello scavo anamnestico, alla ricerca “della lingua sorgiva che rintocca” (8) con la quale finalmente poter restituire la piena presenza delle cose che altrimenti “non dette non esistono” (19).

L’adozione del verso sciolto non esclude affatto l’uso occasionale di rime, assonanze e consonanze a formare un denso tessuto fonico-ritmico che poi innerva i livelli semantico e figurale, a caratterizzare quella analysis situs che tocca tutti i gradi della scala naturae costituendo una peculiare fenomenologia della parola-cosa, indagata more geometrico (25) o addirittura algebrico (26), in un esame minuzioso dell’infraordinario (26), in una sistematica scomposizione delle forme ricevute (28) che tocca non solo il retaggio della storia ma anche l’inganno della ragione.

E ovviamente poi ponderate analogie, sinestesie e metafore, tra cui particolarmente saliente è quella dell’humus-sottobosco (“l’impoetico intreccio vegetale”: 24) che attraversa, anche inespressa, l’intero testo, trattato appunto qui come uno spazio topologico di continue microtrasformazioni, quell’ “infimo travaglio” (30) di cui bisogna mettersi in ascolto per poter infine pervenire alla nominazione necessaria (33) che consente il trapasso delle cose dalla potenza all’atto, in una escatologica “chiaroveggenza” (37).

E poi c’è quella della “faglia”, della cesura che abita dall’origine la parola poetica e ne comporta il rischio di una definitiva espropriazione, del suo ammutolire e farsi cosa fra le cose, “mostro e captivo o forse solo infante” (34), in quel sacrificio ricorrente che è ogni vero atto di creazione.

C’è infine quella del “limite”, di volta in volta orizzonte (31, 32) o profilo (36), ma soprattutto “crinale” tra potenza e atto, essere e coscienza, volontà e rappresentazione, come accade, con un vero e proprio soprassalto della rima, nei versi conclusivi di tenore metapoetico: “l’atto tramuta volontà in sapienza/ - saggia la forza e la sua resistenza/ condanna a prese rapide dal vivo/ coscienza intermittente e abbarbicata/ ad attimi di pia chiaroveggenza”. (37)

La fine rimane così in sospeso come l’inizio (“Circola tra oleandri mortali/ nome senza aureola/colmo all’orlo”: 17) a sottolineare la fluidità di questo spazio-tempo che resiste a ogni investimento ideologico, fatale in uno spazio metrico-vettoriale, dove le opposizioni “alto-basso”, “destra-sinistra”, vicino-lontano, aperto-chiuso, finito-infinito finiscono fatalmente per assumere i significati di buono-cattivo, giusto-sbagliato, proprio-altrui, accessibile-inaccessibile, mortale-immortale, ecc. (Lotman 262), aprendo a quelle incrostazioni culturali del linguaggio, la cui rimozione è compito del poeta.

Così invece il nostro spazio topologico non si trasforma mai in uno spazio assiologico, rimane sempre così, aperto, smisurato, cangiante, pronto ad accogliere molteplici estatiche riletture.