Gian Maria Turi, audiolettura di “Il corpo di mia figlia”, nota di Mara Cini

Un cantico della creatura che pulsa e cresce e si ramifica nel mondo.

Nasce e si fossilizza in un’eterna infanzia mutante, misteriosa: … piedini in quelle miscroscarpe costosissime o … la sua bambolina intagliata in avorio, gli arti snodati.

È di una creatura bambina che si parla, nata nell’amore del corpo di una madre, nello stupore dei balbettii che si fanno parola.

 

il corpo di mia figlia (mp3)
 

mi hai intessuto nel ventre di mia madre 

Salmi 139, 13


 

Sei troppo vicina. Lo sei sempre stata, nessuno lo è mai stato come te.

Il tuo corpo è stato per un po’ un mio organo,

il più speciale, quello miracoloso, prima che tu acquistassi un respiro indipendente.

Il battito del tuo cuore nel mio utero ci rigenerava

già quando tu eri ancora un vermicino, una minuscola larva.

Tum-tum-tum-tum-tum-tum-tum-tum-tum

tanto veloce da sembrare nel panico, in affanno, mentre invece era gioia d’amore.

L’aggancio galenico tra cuore e amore, prima che diventasse cosa da diari adolescenti

e adesivi e carta di cioccolatini industriali,

era il mistero del sentire che si incarna, che prende forma e si muove.

Di quell’amore che sa come si mettono gli organi in posa nel ventre di una madre,

incastrati uno nell’altro e in fase, intrecciati da ghiandole e nervi,

nell’umido del sangue.

Il tuo corpo: quel miracolo collettivo di cui sono entrata a far parte nascendo.

Essere creati. Ricreare.

Il tuo corpo plastico e fragilissimo che ammette ogni sopruso e ogni carezza,

con cui, indifeso, stai imparando che farci: i tuoi piccoli gesti scoordinati,

piangerci dentro per rivendicare i desideri indicibili, provarti a imporli, chiederne il contenimento e il riconoscimento.

Cadevi, sbattevi la testa. Poche volte non sono stata attenta

e tu cadevi e sbattevi e piangevi e la consolazione ti ridava il sorriso. Hai sempre sorriso così tanto...

Al tuo corpo hai imparato a starci attenta quando ne hai preso consapevolezza,

quando hai capito che con quel bambolotto ti sentivi, ci stavi bene e male.

C’è questa spinta violenta alla vita violenta e tenerissima,

i tuoi tentativi e le cose che impari, ogni momento in cui cambi e scompari e ricompari già un’altra.

Creatura di feroci cambiamenti, senza i quali del resto non ci saresti

né ci sarebbe ogni cosa che ci è venuta incontro e intorno e ci ha fatte più felici, meglio avvedute, diverse,

tu formandoti minuto su minuto, io, cresciuta, precipitando nell’invecchiamento.

Tu e io nella banalità di essere madre e figlia, tra le banalità quella più assurda a pensarci,

e figlie insieme della creazione da cui riceviamo ogni cosa. 


 

Ci sono le piccole cose e quelle enormi che abbiamo condiviso, che condividiamo ogni giorno.

I tuoi meravigliosi passi da astronauta – precari, traballanti, saltellanti – i dentini doloranti salivanti, le dita che ora svitano i tappi alle bottiglie

e prima erano ramuscoli letargici di carne. I tuoi piedini in quelle microscarpe costosissime

che ogni volta che restano vuote mi terrorizzano con la tua assenza.

Temo ogni giorno di non esserti abbastanza, di non dirti e non darti a sufficienza.

Ogni giorno mi spaventano le probabilità della tua morte, nel ricordo dei tanti bimbi morti

per cause naturali o accidentali o per inique violenze scellerate,

oggi e da sempre, e prego in segreto perché i lutti delle madri abbiano fine

e il dolore dei bambini sia espunto dal reale.

Da certi studi ho ricordato con pena immaginata la sofferenza che avvolse la famiglia

di quella bimba antica trovata a Grottarossa nel ’64, ritrovata mummia,

odorosa ancora di resine conifere versate sul suo corpo morto a caldo

e che in effetti quasi la resero pietra. Quando la rinvennero nel suo sarcofago,

gli operai che scavavano al km 11 della via Cassia per farci un palazzino, la buttarono via da una parte

per non dovere interrompere i lavori, fugare l’intervento della Soprintendenza.

Poi il giorno dopo qualcuno la rivide, la credé un cadavere

recente. Le foto di allora ne hanno conservato i lineamenti camusi e carnosi,

dopo diciotto secoli intatti di una sepoltura inespugnabile, ermetica, climatizzata,

i quali poi all’aria si dissolsero in un orrido scheletro conciato,

oggi esposto alla pubblica gogna dei turisti

nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, a Roma. 

Con lei si rinvenne una bambola, la sua bambola, con lei sepolta a farle compagnia, intagliata

in avorio, gli arti snodati, con un diadema lunare a Iside sacra, la bambolina

come la bambina e i genitori del suo piccolo corpo sepolto, ripieno degli organi interni

per devozione a qualche culto orientale sincretista, probabilmente. E il dolore di quel gesto di opposizione alla corruttela della sua presenza,

l’imbalsamazione perché quel corpo amato resistesse all’annientamento, quel non volerla

mandare da sola nell’ignoto degli inferi, nel buio, nell’inerzia – lei accompagnata

dalla sua bambola devota. Quel gesto di un dolore senza tempo mi sgomenta.

Lo esorcizzo nella cura del tuo corpo, nei baci sulle costole che affiorano sul tuo torace, con il tenerti allegra, assecondando

la tua naturale gaiezza di bimba fortunata e ben nutrita.

Noi qui creature tutte nate nell’amore del corpo di una madre, per quanto poi il mondo ci oscuri, ci renda ignave, stolte, bisognose, spesso avverse.



Sei nata in luna piena e ho iniziato a contare il tuo tempo sulle lune.

Avevi una testa perfetta, rotonda, bionda, eri così senza macchia

che perfino l’ostetrica si è emozionata: “Com’è bella!” ha detto. “È tutta pulita”.

Dormivi di notte, coliche non ne hai avute, mangiavi con avidità

il mio seno mettendomi in uno stato di continua trasognata emergenza, 

resa incondizionata ai tuoi bisogni di protezione e di cura, contatto primitivo.

Appena ti sei retta sulle gambe hai ballato. Ogni ritmo ti fa molleggiare

sui ginocchi, anche soltanto due mani che sciacquano i piatti e acquistano cadenza.

Avevi un anno e mezzo appena quella volta al ristorante greco,

i musicisti che suonavano il sirtaki, tu hai intrattenuto la piazza per mezz’ora

con piroette e braccia sollevate che chissà dove le avevi imparate quelle mosse.

Ti avrà mosso la musica stessa. Tutti ti salutavano quando ce ne siamo andate.

Sei una bambina che accentra l’attenzione nella benevolenza: sei bella, sorridi sempre.

Ti fidi, sei curiosa, ti interessano gli altri.

Oggi più di ogni cosa mi commuovo alle tue prove linguistiche, forse per la mia sensibilità ai linguaggi,

quando ripeti le parole che diciamo e ogni volta ti migliori e inventi codici elementari

per dire quello che ancora non puoi dire: “Sì! Sì!” quando vuoi tanto qualcosa, ripetizione enfatica; “Càcia, no. Càcia... no!”, quando sai che non ti devi togliere le calze perché ti raffreddi, ma ne vuoi la conferma.

Ogni giorno una piccola aggiunta, una sillaba nuova, un suono

più difficile per te che devi apprendere i linguaggi di due madri, due lingue materne.

Sarai più intelligente, dicono. E che emozione sentire i tuoi primi compagni

all’asilo che ti invocano, quando ti porto al mattino: “È arrivata Anna!”, che ti salutano quando ti riprendo: “Ciao ciao, Anna!”.

Sei una di loro. Appartieni a quel gruppo. Sei tu. Sei la più piccola, sei la star locale.

Non siamo già più così unite come quando mi succhiavi il calcio dalle ossa

o spremevi i miei capezzoli fino quasi a staccarli. La vita cresce in te,

s’infittisce nelle tue relazioni, la consapevolezza di te stessa sedimenta con l’esperienza che fai ogni giorno del mondo.

Piangi poco, quasi sempre ti diverti. Noi ti diamo sostegno,

siamo i binari sui quali tu puoi scorrere, fermarti, correre.

Siamo il cibo e la casa e il rifugio e il conforto, la famiglia in cui sei nata

e che secondo alcuni hai scelto quando ancora eri in spirito soltanto, per altri ti è toccata casualmente. In ogni caso

che la vita ti sia lieve, amore mio, e che tu sia lieve alla terra.
 


Mi chiamo Gian Maria Turi e sono nato a Bologna il 21 luglio 1969, dove ho compiuto gli studi elementari e medi inferiori. Nel 1983 mi sono trasferito con la famiglia a Genzano di Roma, per motivi legati al mestiere di mio padre. Nel 1989 ho ottenuto la Maturità Scientifica e l’anno successivo mi sono immatricolato alla Facoltà di Fisica dell’Università di Roma II “Tor Vergata”. Nel 1993 ho capito di avere sbagliato indirizzo di studi e mi sono iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, dove mi sono laureato in Filologia Romanza nel 1998. Durante il periodo universitario bolognese ho iniziato a scrivere con regolarità, risultando terzo classificato a un premio di poesie legato alla Facoltà di Lettere e presieduto da Ezio Raimondi e Niva Lorenzini. Una delle poesie premiate è stata pubblicata in Voci di poesia: rassegna di poeti contemporanei a Bologna, a c. di Gilberto Centi, Bologna 1997.

Conclusi gli studi universitari, mi sono trasferito per alcuni mesi a Saragozza, in Spagna, dove ho studiato lo spagnolo e camminato per il Cammino di Santiago di Compostela. A ridosso del nuovo millennio sono partito per l’India, dove ho viaggiato in lungo e in largo per oltre 8 mesi, raggiungendo il Nepal e le montagne dell’Himalaya. Dall’India sono approdato in Israele nel giugno del 2000. In occasione della Seconda Guerra del Golfo, ho iniziato a lavorare presso l’Ambasciata d’Italia a Tel Aviv come revisore dell’archivio anagrafico. Ho iniziato anche regolari studi cabalistici e, di conseguenza, ho imparato l’ebraico.

Dal 2003 al 2008 sono stato direttore amministrativo dell’Istituto Italiano di Cultura di Haifa, in Israele. In questo periodo ho terminato gli studi cabalistici, quindi sono stato costretto a lasciare il paese per la scadenza del permesso di soggiorno. Nel 2009 ho viaggiato di nuovo in India. Nel 2010 mi sono trasferito ad Atene, dove ho iniziato a lavorare come insegnante di lingua e cultura italiana presso l’Istituto Italiano di Cultura di Atene, e vi ho lavorato fino a quando la crisi economica ci ha permesso di avere un certo numero di studenti, cioè giugno 2012. Da allora ho lavorato come insegnante di lingua italiana privato, editor e traduttore. Sempre nel 2010 ho pubblicato presso l’editore Manni di Lecce il libro Acrilirico, raccolta di poesie e prose risalenti al periodo universitario a cui non avevo mai dato seguito. Opera segnalata al premio “Montano” - ANTEREM 2012.

A ottobre 2012 è uscito il mio libro Darśana de Malchut, che è stato presentato negli Istituti Italiani di Cultura di Tel Aviv e Haifa il 18 e 19 giugno 2013 e in alcune città italiane nel mese di dicembre 2013.

Il 23 marzo 2013 il mio inedito Canti della burocrazia si è classificato secondo ex-aequo al 14° premio Navile, città di Bologna ed è stato segnalato al premio “Montano” - ANTEREM 2014. Lo stesso è stato pubblicato in formato ebook nel dicembre 2014 sul sito del LaRecherche.it.