Roberto Bugliani, inediti da "Versi scortesi", con una nota di Giorgio Bonacini

Invece

 

La piazza è il luogo di nascita della democrazia, che per sua natura è partecipativa. In questo caso la partecipazione è data dal numero attivo. La democrazia rappresentativa è la forma politica mediata che subentra al numero attivo quando il sistema di rappresentanza provvede a trasformare la partecipazione popolare diretta in numero passivo e avoca a sé ogni legittimità.

 

Invece qui stoppati dalla nebbia non si scorge

nemmeno l’ombra d’una guida

o d’un passante caritatevole che ci soccorra

indicando come da programma il percorso, il fiume

infido per mulinelli d’inganni fa la sua parte

siamo noi che incerti al bivio invano invochiamo

misericordia di cartelli con località e distanze, per cui

la strada da prendere ci appare

ignota e oscura, e dubbioso il cammino

disabituati da sempre ai rischi, alle rotte

senza mappe, agli intralci imprevisti, né altro

è dato all’insicuro passo

che un viatico di inciampi e di sconcerti

al tramonto inciso sui nostri volti

d’ovatta, miserevoli ostaggi del sospetto

che la strada possa avere una fine

senza fine, un alt quando meno te l’aspetti.

 

 

da Occasioni per tutti i gusti

 

Senza titolo

L’incellofanata vanagloria del dettato

che il dettaglio agghinda a esclusivo

beneficio degli addetti, quasi fosse

il così-è del mondo, macerie comprese

e il resto, tutto, viene in seguito

come segugio dietro i passi del padrone

come simmetria di rapporti causa-effetto

come se la linea di volo fosse a priori circoscritta

come singolo fattore quando l’insieme è dato

come enigma di tramonti intrisi di macaia

come questi versi a surrogato del vento.

 

 

Si dice comunemente che la letteratura non cambia il mondo, e, in senso materiale, forse è vero, ma con la scrittura poetica c’è una possibilità in più, se si vuole, di considerare le violenze, le iniquità, le ipocrisie, le volgarità del luogo e del tempo in cui viviamo, sgretolandone in senso ideale i presupposti. Perché in poesia l’oggetto materiale esistente viene interiorizzato e ridefinito in forme e sostanze diverse, che possono non solo dire, ma forse fare (o far fare) qualcosa. Ciò non significa che la presa sul reale da parte della poesia sia dirompente, e di questo Bugliani è ben consapevole in quanto, come egli dichiara, “la vita nella sua contingenza quotidiana non ha giurisdizione nel verso che è, quando va bene, verità mediata.”

Questo però non impedisce al poeta, quando decide di accettare la sfida con un pensiero che si opponga a una realtà obbligata e menzognera, di tentare l’opera usando una scrittura come uno strumento di antagonismo. E queste poesie sono un lucido esempio di partecipazione e contrapposizione etica a certo deleterio uso del mondo e anche di certa poesia, secondo l’autore, chiusa a contemplare se stessa. Infatti in questi testi, oltre a una voce di indignazione e di invettiva contro tutti coloro la cui ideologia dominante è fonte di sofferenza per coloro che il potere reprime e deprime, c’è un occhio di critica particolare per certa poesia lirica che tanto ha avuto e ha corso. E per questo Bugliani cita Rimbaud, per il suo smarcamento dall’io (Je est un autre) e Hölderlin a proposito dell’ impoetico che diviene poetico. Infatti nei testi di questa raccolta, l’andamento del discorso contiene sempre in sé una riflessione sul referente esterno e l’autoriflessione che la scrittura opera sul suo programma significativo e formale. E in quest’opera la dichiarazione di poetica è altamente esplicita e diffusa: la poesia deve stringere d’assedio la realtà, interpretandola non con languida, seppur bella e significante, fonìa, ma come se lavorasse nell’officina dell’essere e del mondo con precisa e personale idea e ferma volontà di cambiamento. Chi fa poesia deve rilevare l’impoetico e usarlo, anche con un po’ di ironia, ma con sguardo sempre attento, “nell’attesa che il testo faccia il gioco” e non viceversa, a far sì che il poeta (uomo immerso senza distacco alcuno in questa realtà corrotta), sia lui a proporre e a dire, e non a subire il propositivo e il detto potendo solo una reazione indotta.

In tal senso Bugliani precisa, con grande sensibilità, che alla poesia ci si avvicina “mentre in sogno/sogna”, perché è lei che può e deve, come cosa nel mondo, farsi carico del tutto esistente senza paura di usare ogni tipo di parola: con umiltà, dismettendo l’appiccicato ruolo profetico e avendo a cuore chi perde e non chi vince. L’autore è poeta cosciente che i versi sono a volte truffaldini e perciò solo una scrittura non disgiunta dall’ethos, con passione e compassione, può aver vita e dunque senso in una contemporaneità di false illusioni che per molti è durezza e sofferenza estrema. Insomma la poesia deve essere di più, deve creare una civiltà della poesia in cui chi scrive possa offrire non tanto meraviglie ma solide concretezze di “terra aspra”.