Enzo Campi, inediti da "Il Verbaio", con una nota di Giorgio Bonacini

prélude

non ci sono chiavi più o meno adatte

per prima cosa lo spasmo.
di pari passo con il tonfo.
l’uno elettrico l’altro sordo.

poi la retina.
irrimediabilmente circoncisa dalla luce.

          la latenza singhiozza
          un baluginio di garbugli di voci

          la latitanza favorisce l’appropriazione indebita


l’ampio gesto claudicante
dell’attempato Efesto rinnova
i fasti della fucina di Lemno
e le parole si consegnano tronfie
al loro destino di cenere

non c’è spinta che sia definitiva


pas mal

infidi dettati
ancorati al piede
s’avvitano giambici
se mai limbici
a designare diametrie
ricucite
in punto e a capo
lungo la croce
che rinsalda il nodo
e glorifica il peso


profferta a inaudita pena
dilaga pavida e insincera
la storia di chi sa e conosce
l’incoscienza di una lingua
che può risuonare
solo come contrappunto


s’incava
come sabbia sotto l’unghia
la permanenza al senza
che imprime la sua firma
declinandosi nell’evanescenza

e quel neonato silenzio
che si configura
come antenato del senso
voltando le spalle
alle piaghe e ai germogli
muova il suo passo
verso il punto
che sfugge alla presa


non sono io la luce
            che rifrange
            la radianza del sibilo
            nell’antro auricolare
né il mio verbo
            potrà mai vibrare
            su quella nota estrema
            che devasta il costato

è ancora tutto fermo
nello stallo
della forclusa iconoclastia
ma sopra vive
in fondo al senza fondo
se pure dissestata
l’idea di una levata
ribattuta punto a punto

 



La poesia di Enzo Campi chiede tanto al lettore, principalmente in termini di cooperazione nella costruzione di un senso diffuso, già preesistente nel testo, ma estrapolabile nelle sue diramazioni dalla lettura materiale, anche quella dell’autore/lettore. Ma il tanto che questi versi chiedono viene ripagato nell’accoglimento di una scrittura significativamente straripante, magmatica, ma mai abbandonata a sé o al caos. In quest’opera l’urgenza che preme nello srotolamento del flusso verbale è segnata, fin dall’inizio, da un angolatura del percorso che dalla mente arriva al corpo, con un viaggio di grafia e voce in cui la coscienza della parola si arricchisce fino ad assorbire la sua in-coscienza, estrapolando e interiorizzando ogni sua relazione con l’esterno, con l’altro.
Ed è così che, da una disgregazione/ricomposizione, nasce nell’autore la domanda: “fagocito ergo sum?”, con un evidente traslazione dall’astratto al concreto, dal fuori al dentro, dall’estensità all’intensità, dall’esprimere a un più pertinente imprimere una nebulosa di sensi che andranno sia a implodere e a oscurarsi nel “nulla/di cui siamo costituiti”, sia a esplodere e a irradiarsi dal “neonato silenzio” che è origine di ogni voce che abbia ragione, ricerca e significatività di poesia. Ma in questo essere scrittura sorgiva, non c’è e non ci può essere una presa stabile sul significato, perché questo non ha nulla di pre-scritto o pre-detto, oscillando (come esplicita il titolo dell’opera) tra stasi ed estasi. Così il senso, costantemente teso a disequilibrare un’illusoria simmetria, infrange l’ordine e lascia fluire in un continuo ricominciamento i suoi fonemi, che si formano in lingua e deformano il dire con un dispendio rigenerativo di energie.
Lo sgretolarsi del linguaggio, però, pur inudibile nel “suono fuorviato”, prepara alla conoscenza la cosa (un reale per se stesso inconoscibile) chiamando “l’errante alla parola”. Ma da dove viene e che cos’è questa “erranza” su cui si costituisce il poema di Campi? Certo non è la chiarificazione di un andamento sghembo già stabilito, perché ciò che si produce scrivendo sono configurazioni sintagmatiche che, in figure vive, tendono a un’interpretazione che ne sblocchi la potenzialità avvolgente; e allora ciò che colpisce, nella parola destrutturante ma non distruttiva dell’autore, è quell’oscura illuminazione che il poeta riconosce nel segno di un gesto, che potrà anche essere destinato all’oblio, ma, anche solo per quel poco riverberato da una sillaba, porterà con sé un corposo, materico, primordiale cominciamento ad essere, nutrendosi “di muffa/e di muschio.” E’ dunque nell’umido e nell’ombra che nasce la sua urgenza. E da questi luoghi risale, ancora in suoni appena percepibili, in materia appena palpabile, in “sbavati fonemi” ma già capaci di procurarsi il sostegno di un’immaginazione verbale; di spingere ponendosi all’ascolto di tutti i suoni, per dare vita originaria a una lingua che prova il mutamento dei tragitti che ne fondano la possibilità di un’esistenza. Tragitti che sono gli elementi erranti, coinvolgenti e particolari nelle figurazioni di un soffio d’aria, una zolla di terra, un fluire d’acqua, una vampa di fuoco, che vagano entro il respiro di un corpo scritto.