Tiziana Gabrielli, un inedito, "Dal segno alla parola", con una nota di Marco Furia

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I.      LIMEN

È visione il segno
                              nel bianco
della pagina campo
                    e coltura
         
È e non è
                    sa e non sa
il suono dell’ombra
           pro-logos e impronta
sulla bocca dell’antro
   
     nient’altro




II.    «NEL CAOS DELLE COSE»

  
        Dal di dentro all’oltre
         tra l’origine
                                e l’in(de)terminato
         
       è un tumulto il principio
                          la fine in-finita
l’eterna contesa
                    
                      «a sfera radiosa»
tendono
              le cose prime                                      
                           
             il respiro e la carne               
       
                                nell’ora dell’ignoto
         che viene

 


   
III.    TRA SILENZIO E VOCE

   
    In soglia - di soglia - in soglia
                           l’Uno e il suo contrario
     davanti agli occhi
                                             della Notte
                                l’«Antinotte»
   
    spalanca il Nome
                           dell’essere-assenso
                                                    al silenzio
   
    duplice eco dell’Altro
                             altrimenti che della parola
    che si fa incanto
                                          e nostalgia
            dell’impronunciabile

 



Con “Dal segno alla parola”, Tiziana Gabrielli presenta una sequenza elegante, nel cui svolgersi gli spazi bianchi paiono esprimere, più che il silenzio, la muta cadenza di un sussistere poetico.

In particolare, alla terza sezione, la poetessa si sofferma sul gioco dei contrari, ossia su come ogni concetto venga definito anche per via del suo opposto, in un contesto che, ben lungi dall’essere considerato sterile, è avvertito quale essenziale àmbito dell’umana esistenza.

Un dubbio viene suscitato dal titolo, perché, se la parola è segno, appare impossibile ipotizzare il passaggio da un’entità a se stessa.

Forse per segno s’intende una traccia a priori confusa, poco chiara?
Non saprei, giacché il segno, proprio in quanto tale, indica qualcosa e, dunque, è già lingua.
Un certo gesto, ad esempio, può benissimo sostituire una certa parola.

Forse s’intende, con atteggiamento incline a una sorta di surrealismo idiomatico, il passaggio da un tratto a un identico se stesso? Oppure a uno eguale e contemporaneamente diverso?

Il persistere del dubbio non m’impedisce di apprezzare una poesia davvero espressiva, in grado d’insinuarsi all’interno della lingua con intelligenza e sensibilità.

E qual è l’esito di ogni buona versificazione se non quello di far emergere, tra le pieghe del linguaggio, vividi tratti capaci di riferirsi in maniera originale all’accidentalità del nostro stesso esistere?