Alessandro Assiri, da "La stanza delle poche righe", Manni 2010, con una nota di Rosa Pierno

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si affrettava il passo e sembrava si spostasse,
l’unico spazio che all’uomo è concesso
tutto quel vuoto che manca all’adesso

 

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la voce che non sento
è la mia lingua che non dice
le lettere spedite dall’esilio
a un indirizzo sconosciuto
dove il dialogo è uno spasmo
un tempo ormai reciso

 

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rumore di ferro, di catene pesanti
si ama solo trascinando

 

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fuoco di un presente
improvvisato
calore necessario
alla tua parola che sognava
di succedere

 

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anniversario degli oggetti
condannati a esser densi
come noi che sorridiamo
tra le radici e le stelle
attraversando un silenzio

 

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a capo
così la pagina non finisce
come spazio bianco
delle paure orizzontali
ma prosegue
amplificandosi
dal basso

 

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di stanza in stanza
così divento casa
al plurale immaginando
mattone su mattone
costruire lontananza
con la calce dell’addio

 



Operare con le parole un diradamento per cogliere qualcosa, non diremmo l’essenziale, né un concreto risultato, piuttosto soltanto un  percepire inusitate prospettive, nuove vie: “come meli che la grandine ha scosso / aggrappati alla vita / tentano il frutto”. Solo ciò che si tocca, che si vede, può dare qualche certezza, il linguaggio non dice, “il dialogo è uno spasmo”. Ma quanto possa servire la percezione in quest’afasia è pressoché dichiarato: “dimmi cosa c’è tra questo nulla e me”, dove se si percepisce il nulla è ancora al linguaggio che si chiede di tessere relazioni e dare  definizioni. Pratica paradossale, ma non per questo non perseguita. Alessandro Assiri ci sembra un equilibrista che si sia assicurato la caduta per verificare i limiti delle possibilità del linguaggio e la  praticabilità della sua assenza. Il suo esercizio linguistico non frantuma la frase, costruisce un dettato semplificato al massimo, che si potrebbe, forse, definire a trama larga.  Certo, lo scenario che egli disegna è privativo: “restano solo storie / di seme che cola / senza ventre / per terra” e rari sono i tentativi di rianimare il senso lì dove non ci sono che tracce superstiti. L’immaginazione vi è usata come esca e le parole sono rese oggetti senza ruvidezze: nessun rostro che artigli prossemiche parole. In ogni caso si cercherà di mettere in nuce l’esistenza nuda: “si vive / e forse è troppo ancora / si vive solo / per nutrirsi di sole”. E, nonostante questo, le parole sono sempre in agguato, quasi impossibile tentarne la riduzione, allo stesso modo in cui sembra impossibile ridurre il nostro impeto all’attesa, pur se siamo consapevoli che nulla giungerà. In questo testo, che corteggia il silenzio per rendere presente il nulla, noi constatiamo che Assiri ottiene comunque di circoscriverlo.