Mario Benedetto, una prosa inedita, “L’era in cui viviamo”, nota di Davide Campi

Tema centrale del testo di Mario Benedetto è la dimensione del tempo nella comunicazione umana, la sua valutazione culturale, la sua ottimizzazione.
Nella prima parte viene analizzato il trasferimento delle idee nel mondo della rete globale; il sistema di analisi è semplice: si parte citando dati quasi banali, ampiamente vulgati e si continua a scavare in questi, sino portarne alla luce gli esiti ultimi, le conseguenze meno evidenti e quelle più nascoste.
In questo modo Mario Benedetto giunge ad uno dei problemi fondamentali della comunicazione di questa era digitale, e cioè l’intrinseca pretesa di istantaneità che si traduce in una velocità nello scambio dei fatti e delle idee tale da far perdere agli stessi qualsiasi spessore e qualsiasi valore “umano”.
Tutto ciò viene contestato nella seconda parte, in cui alla superficialità di uno scambio spasmodico di immagini, parole e storie spesso prive di peso si contrappone il valore del tempo umano, giustamente dilatato, nella produzione dell’arte e degli oggetti culturali, nonché nella fruizione degli stessi.
Pure con una indiscutibile lucidità nell’analisi, arricchita di citazioni e dotti sottintesi, questa ultima parte si configura, quasi nei modi dei volantini politici d’altri tempi, come una vera e propria esortazione a tornare a ritmi più umani del dire.



L’ERA IN CUI VIVIAMO - Tra comunicazione tecnologica e comunicazione poetica

Viviamo nell’era della comunicazione ed è il primo comparto al mondo per investimenti, profitti e possibilità occupazionali, come recitano le tante scuole create ad hoc per gestire i nuovi scenari. Soltanto nel nostro paese ci sono più carte sim che esseri umani, i contratti telefonici mobili utilizzati sono 82,3 milioni, il 135% della popolazione residente, in dettaglio sette italiani su dieci hanno uno smartphone e le applicazioni più scaricate sono quelle che permettono di rimanere collegati al mondo. Oramai è molto difficile non restare impigliati nella “rete”. A questa particolare “visibilità” concessa dai social network alla massa di utenti, corrisponde un enorme accumulo di dati privati rivelati che ci rendono più vulnerabili.  Si è diffusa come una febbre, da chiunque verificabile, e smania di dover raccontare, rendere pubblico, ogni aspetto privato come se fosse rivelatrice d’importanti significati e nulla più resta in ombra. Il non essere in rete equivale al non esistere proprio, è inconcepibile e insopportabile restare fuori dalla rappresentazione di questa realtà fatta di successioni di flash, frammenti superficiali che non permettono una visione complessiva delle cose che viviamo. Tutto dev’essere fast che è anche la caratteristica della nostra epoca. La velocità io la lascerei ad altro, per le relazioni umane e l’arte serve, soprattutto, un coinvolgimento fisico con la libera consapevolezza di tutti i sensi, un ritmo diverso e meno virtuale. L’arte e la poesia sono ben altro dalla necessaria e semplice comunicazione. Certo non si può negare, quanto le nuove tecnologie siano utili e quanto contribuiscano a stimolare e sensibilizzare la gente al mondo dell’arte, anche se nulla potrà mai sostituire la presenza fisica con la sua aura dell’opera d’arte, unica e irripetibile nel posto in cui si trova. Prima o poi si arriverà, anche in queste latitudini, al clicca e compra (click and buy), ma andiamoci piano, che necessità c’è di affrettarsi, precipitarsi a rotta di collo. Va bene stare al passo con i tempi, comunicare, pubblicizzare, promuovere, gestire, diffondere e valorizzare, ma non facciamo assurgere l’opera virtuale a paradigma arrogante di qualificazione estetica. Restiamo umani! Quando la realtà in uno dei suoi aspetti, un certo colore, una luce particolare, un viso, una figura, un colpo di vento, un profumo, colpisce l’attenzione umana, se essa è ancora sveglia, accade che le parole entrino in tensione e non sono più come prima, quando comunichiamo normalmente.      “‘E il reale che tende a dirsi, attraverso l’emozione e le parole di qualcuno”. Tutto questo non può avvenire virtualmente. Bene inteso che nessuna preclusione a ricerca e sperimentazioni di nuovi moduli espressivi dev’essere fatta, l’innovazione va perseguita per evitare di restare fermi e “impantanati” nella tradizione. “Il compito dell’arte è quello di essere sempre diversa dal passato, di aggiornarsi. Esiste soltanto l’arte aggiornata” (da intervista a Gillo Dorfles su Panorama, ott. 2014). L’arte attinge la sua concretezza dalla vita in generale e dalla vita della cultura i cui contenuti confluiscono in essa, impregnati e fatti propri per diventare una nuova energia. L’arte non ha nulla a che fare con i tempi immediati della comunicazione, della condivisione e dell’essere in rete. Con tutto il rispetto alla genialità di Mozart e di altri grandi, la creazione artistica non è un gioco, un passatempo, non corre, al contrario ha bisogno di tempi lunghi, di riflessioni, di approfondimenti, di solitudine, di attesa e non deve essere di pochi, ma poter parlare a più persone possibili (il sistema dell’arte è un’altra storia). Creativo nell’arte è colui che rompe le regole estetiche precedentemente formulate. Soltanto utilizzando chiavi di lettura della realtà inedite ed anticipative, è possibile vedere al di là dei consueti modelli di percezione, partendo dalla curiosità e dall’intuizione e sviluppare idee nuove e invenzioni utili con un valore riconosciuto. Per tagliar corto, voglio citare questo intenso giudizio di Robert Hughes, scritto qualche anno prima della sua scomparsa nel 2012: “Ne abbiamo davvero avuto abbastanza di fast art, ora abbiamo bisogno di slow art. Abbiamo bisogno di un’arte che racchiuda in sé il tempo, così come fa un vaso con l’acqua. Un’arte che tragga origine dai modi di percezione e creazione, che con capacità e ostinazione faccia riflettere e tocchi gli animi. Un’arte che non sia sensazionale, che non lasci trapelare subito il suo messaggio, che non sia falsamente iconica, ma che penetri nel profondo delle nostre nature. In breve, un'arte che sia l’esatto opposto dei mass media”.



Mario Benedetto è nato a Scilla (RC), laureato al Politecnico di Milano e diplomato all’Accademia di Brera vive e lavora a Vernate (MI). Autore di numerosi articoli sulla storia e la critica d’arte, è stato docente di Discipline Pittoriche in alcuni licei artistici. Tra le numerose esposizioni personali si ricordano: 100 opere sulla civiltà contadina e marinara in Calabria, Zurigo, 1985, con tavola rotonda sullo stesso tema, che ha visto la partecipazione di numerose personalità della cultura; l’Antologica 1964 – 1994 al Castello Carlo V di Lecce, 1995, con 140 opere, di cui, alcune di grande formato. Da anni è attivo nel campo dell’arte sacra con la progettazione e realizzazione di vetrate, mosaici (Trinità ed Immacolata, Duomo di Scilla,1986) e opere scultoree per chiese (Timpano della Chiesa di San Rocco, Scilla, 2003).