n. 66, Segni del perturbante

«Anterem» giugno 2003

Mi addosso alla sua ombra
raccolgo il suo silenzio tra le mani.
Jaccottet

Ogni processo approfondito di conoscenza non porta che alla scansione di strati sempre più profondi e abissali d’incomprensibilità.

Nei suoi sforzi cognitivi, l’uomo segue un itinerario paradossale e contraddittorio nel corso del quale l’attività della mente si manifesta nel sentire e nel pensare contro, giungendo a volgere ogni emozione e concetto nel loro contrario, fino alla sperimentazione dell’indifferenziato. I segni del perturbante ne sono una testimonianza.

Nel suo rimettersi all’oscurità come a una forma più profonda del sapere, il pensiero entra in un processo di lacerazione e dissoluzione che lo porta a identificarsi con la natura; o meglio: con l’ombra stessa della morte che la natura distende sulla vita.

«Questa montagna ha il suo doppio nel mio cuore» scrive Jaccottet. «Mi addosso alla sua ombra / raccolgo il suo silenzio tra le mani.»

Questa è la nostra esistenza. Noi viviamo una vita in cui il silenzio e l’ombra divengono la scienza stessa di un pensiero che si pone in fondamentale rapporto con ciò che si rifiuta a ogni inchiesta e si sottrae a ogni risposta.

Non lo ignora Bernhard quando annota: «Noi domandiamo, ma non riceviamo alcuna risposta. Noi continuiamo a domandare. Tutta la vita consiste di domande e noi esistiamo soltanto per il fatto che precisamente domandiamo, ma non riceviamo una risposta ... ognuno è un incubo abbandonato a se stesso».

L’uomo non viene al mondo per rispecchiarlo col suo linguaggio e con i suoi sistemi simbolici. Sarà anche vero che questi gli consentono di resistere alla pressione altrimenti insostenibile dell’esistere. Ma va detto con chiarezza che difficilmente con essi potrà accedere alla propria essenza.

Il dato di fatto della nostra vita non è l’esistenza che vediamo e descriviamo, ma l’impossibilità di vederla così come essa è e di descriverla secondo logica.

L’esercizio del pensiero nel sentire e nel pensare contro è l’arte di far emergere quanto una concezione cristallizzata e gerarchica del sapere ci impedisce ormai di cogliere.

Il centro geometrico che l’uomo si è costruito come abitazione per proteggersi dal mondo a cui è stato consegnato, va trasformandosi in un presente fatto d’ingombri, sbarrato: esito di una forma mentale fondata esclusivamente sulla ragione.

Secondo Wittgenstein va presa coscienza che la nostra cosiddetta comprensione è soltanto una forma di cecità rispetto alla nostra incomprensione: «La difficoltà è riconoscere l’infondatezza della nostra credenza». Quell’infondatezza è l’unica condizione che ci fa essere.

Solo chi ha confidenza con la parola poetica tenta di spingersi oltre lo spazio fisiopsichico che lo trattiene e di farsi ricettore di segni «indicativi di una cosa oscura», come avevano per primi formulato gli Stoici.

Eppure non c’è grazia, ma solo dolore e sgomento nel congedarsi dalle cose ridotte a merce e nello spingersi fuori dalla luce, verso la propria notte, camminare dentro se stessi parola dopo parola, segno dopo segno discendere verso ciò che sembra rivelare qualcosa alla sensibilità.

Questa esposizione investe tutto l’essere da noi sperimentato. E per parlarne la lingua si priva di ogni ornamento. Solo così potrà dire ciò che è essenziale: l’assenso al silenzio e alla voce che nel silenzio è custodita. Perché, come in Hölderlin secondo Heidegger, «questo dire non è l’espressione del pensiero, ma è il pensiero stesso, il suo cammino e il suo canto».

Chi si affida ai livelli inconcepibili del sentire e del pensare non ci consegna alcuna certezza. Ma ci stimola all’interrogazione ininterrotta e ci ricorda che la radice dell’angoscia non è inscrivibile solo all’esistenza come possibilità, ma anche al grido che avvertiamo dentro di noi e che usa la nostra mente come semplice cassa di risonanza, per chiamarci.

Il cammino verso la profondità dell’essere, e dunque del suo fondamento, si compie in un continuo digradarsi della luce verso l’oscurità della materia.

Nel suo volgersi a ciò che esclude ogni rapporto, si espone ai segni del perturbante e, in uno scompiglio di limiti e conoscenze, costituisce un banco di prova per la scrittura.

Flavio Ermini