n. 64, Antipensiero

«Anterem» giugno 2002

Ora entriamo nella penetrazione,
nel rovescio pungente
di ciò che infinitamente si divide

nel rovescio della pupilla,
nell’estremità terminale della materia
o nel suo unico inizio. 
Valente

Il volto accettabile dell’uomo comincia dove il suo volto pubblico va in polvere. Da questa progressione scaturisce uno sguardo nuovo, costretto a misurare da capo distanze, prospettive, spazi.
Martini

Il pensiero che chiama dalla poesia è il pensiero che nasce nell’opera stessa. In quanto originariamente poesia, inizia sempre nei dintorni di un senso che non ha l’equivalente. In quanto atto senza delimitazioni, impone itinerari sempre nuovi di conoscenza. E induce a uno sguardo che non è più rivolto alla poesia, ma che muove dal suo interno.

Ma quale sguardo? in quale soffio di pensiero? verso quale esperienza?

Torna a farsi avanti con forza l’imperativo di Hanna Arendt: «Denken ohne Geländer», pensare senza balaustre. E aprirsi all’antipensiero: non a ciò che si oppone al pensiero, ma al suo volto in ombra.

Pensare senza balaustre significa approssimarsi a quel negativo ante rem che rifiuta di articolarsi nella sintassi della ragione. Significa favorirne il sorgere stesso.

Ce ne parla Günter Eich: «Quando la finestra viene aperta / e penetra l’orrore della terra – / il bambino con due teste, / mentre una dorme, l’altra grida, / grida contro il mondo / e riempie di spavento». Da questo versus, la poesia muove per la ricostruzione del senso, per la messa in opera della verità: intesa come qualità per cui una procedura conoscitiva ha successo. Come? Assecondando il movimento dell’origine, sorvegliandone la gestazione e il travaglio, ripetendolo. Pensando come il primo uomo ha fatto, scrivendo come se non si fosse mai scritto.

In questa cura della verità – sia dell’essere, sia dell’ente, secondo leggi di necessità interiori –, crediamo che sia possibile accedere agli elementi costitutivi dell’antipensiero.

Portarci in prossimità di questo versus significa esattamente cogliere la coscienza umana al suo sorgere; partecipare al formarsi dell’essere quale custode della differenza.

In tale logica senza conciliazione si articola l’aristotelico «movimento destabilizzatore» che l’antipensiero dall’interno della parola poetica non cessa di praticare.

In tale logica si pone Ingeborg Bachmann quando osserva: «Quello che è possibile è solo il mutamento».

La parola poetica conduce verso ciò che temiamo di più; nella direzione opposta alla vita che conosciamo. E da qui lancia una capitale avvertenza: va assaltato il pensiero, per portare a termine un’opera.

Farlo, significa rompere la fitta tela concettuale tessuta dalla ragione; spezzare la rigida forma vuota dell’io conscio; aprire una breccia nella barriera della consapevolezza razionale, da cui mani falsamente pietose tendono a censurare disagio, sofferenza e malessere; riconoscere come propria ogni ipotesi di lavoro programmaticamente rivolta contro lo spirito del tempo.

Niente ci riguarda più da vicino della parola poetica. Ci parla dei nostri margini scuri: i bordi incerti, decentrati e ambigui che esistono ai limiti del tempo, lasciati in ombra dalla luce sterilmente rettilinea del progresso.

La parola del poeta è l’esposizione della libertà del senso e del senso della verità. E mostra come il senso sia in gioco ogni volta: a ogni gesto, in ogni senso.

«”Origine” significa» ricorda Jean-Luc Nancy «non qualcosa da cui proviene il mondo, ma la venuta, ogni volta una, di una presenza al mondo». Non ci parla di nient’altro l’origine, se non di questa infinita singolarità del senso, e dunque dell’accesso alla verità.

Le donne lo sanno: per generare, il loro corpo deve lacerarsi. Così il dicente deve sapersi dividere per potersi affacciare alla vera soglia dell’essere. E lì esporsi all’ombra che ci abita. Lasciare che essa, quale parola senza soggetto parlante, ci scopra.

I poeti testimoniano il loro trapassare quel limite su cui l’uomo ha tracciato i bordi dell’essere. Nel farlo, muovono a espressione l’oscuro e il nascosto. E pongono cura che questa traduzione non sostituisca l’indifferenziato delle origini, ma lo porti attraverso sé al visibile.

Nel mettere al sicuro tale lacerazione, indicano la necessità dell’antipensiero, l’esigenza di una dislocazione – che è esodo delle parole – oltre ogni senso conosciuto.

A questa insituabile dislocazione fa cenno Gottfried Benn quando, citando George, provocatoriamente scrive: «Nella poesia – come in ogni attività artistica – chiunque sia ancora preso dalla smania di voler “dire” qualche cosa, “operare” qualche cosa, non è neppure degno di accedere al vestibolo dell’arte».

Flavio Ermini