n. 95, L'altrove poetico

Fiorire e inaridire sono a noi ugualmente noti.
Rilke

Il dire del poeta ci parla di un altrove dov’è in opera una prospettiva rovesciata rispetto al mondo sensibile.
Il poeta non nomina le cose esperibili. Il suo canto dà forma all’assenza di ciò che ancora non è apparso. E, opponendosi alla pretesa dell’indicibile di restare non-detto, ci incalza senza tregua, per dare conto della totalità della vita. Quel canto proviene dall’antiterra: da una sorgente dispersa che riaffiora da un cielo inconosciuto.
Grazie a questo dire, ciò che eccede il mondo sensibile si esprime nelle proprietà di ogni singola parola, conferendo fondatezza e legittimità a quanto può apparire soltanto empirico e casuale.

In se stessa – ovvero altrove – la parola poetica ospita l’essenza delle cose. Ciò si evidenzia quando il dire non è pura nominazione bensì rimanda anche a qualcosa di esterno alle cose stesse, oltre le apparenze. I nomi della poesia sono sperimen- tabili nell’attimo ininterpretativo in cui si schiude l’aperto. Portano a significato l’altro del significato. Ci dicono di assecondare l’esodo della parola quando la pa- rola va oltre se stessa, oltre i propri confini. Ci indicano che è necessario penetrare fino alle cause dell’apparire, prendendo atto in tal modo dell’indefinito da cui sorge ogni cosa.
La poesia è produzione consapevole di parole che si sanno disadattate in questo mondo; sempre rivolte a un altrove; sempre in rivolta; sempre alla ricerca di un accordo con la naturalità della terra, accordo che coincide con uno stadio intermedio dell’apparire, tanto da indicare il momento in cui l’immobilità dell’essere s’incrina e sperimenta l’ingiustizia del tempo.

Va favorito nuovamente il matrimonio tra la terra e il cielo. Va favorita la nascita di una parola che dica, insieme, l’originario uno e l’ingannevole molteplice.
In verità il poema è a casa nell’incontro. Nominando poeticamente, infatti, si configura come un colloquio, costantemente scoperto, esposto alla tensione della se- parazione, della divisione. È qualcosa di straordinario, d’inatteso. Conferma Rilke: «Noi non siamo uniti […] / Fiorire e inaridire sono a noi ugualmente noti».

Abbacinati come siamo dalla troppa mobilità, dal troppo movimento e dalla trasformazione perenne, ci allontaniamo in modo costante da ciò che permane; erriamo e facciamo esperienza del dolore, di ciò che «congiunge nello spezzamento che divide e aduna» come Heidegger registra, per aggiungere subito dopo: «Il dolore è la connessura dello strappo. Questa è la soglia». Qui mondo e parola s’inarcano nella parola poetica fino a giungere alla connessione tra visibile e invisibile.

Solo mantenendoci vicini all’origine – dove le cose sono ciò che sono – possiamo nominare l’inizio e in qualche modo dire l’inaccessibile. Ecco il compimento dell’esistenza: un impartecipe lasciar accadere l’essere, nel dare a esso parola. Quell’essere davanti al quale la vita non può venire più misurata né la totalità del mondo adempiuta. Quell’essere che compare quando la vita urta il suo limite e, con il dire, giunge a infrangerlo.
Il dire non è al suo giusto posto nel mondo. Sta in transito. Sta sulla soglia. Si trattiene nel dolore. Sta fra i vivi e i morti, in mezzo al fluire dell’esistenza, nell’interiore validità di quel principio che sembra depositario di ogni forma.
Lo stare è «come essere» annuncia Rilke. È eccedenza di senso che dev’essere salvata: «Questa stava un giorno fra gli uomini, / stava in mezzo al destino che annichilisce, in mezzo / all’oscurità della meta come essere stava e piegava / stelle sopra di sé da cieli sicuri».

La poesia coglie l’essenza della vita, e tende a farsi essa stessa vita. S’identifica con la potenza che rende manifesto ciò che è occulto. Ma non è la risposta definitiva,
«non è la fine, ma l’altro inizio d’innumerevoli possibilità della nostra storia», come conferma Heidegger.
Cosa prepari il secondo inizio ci è ignoto. Ma la poesia – terra di frontiera fra il primo e l’altro inizio – sembra custodire in questo metaxý il mistero dell’essere. Il principio viene assunto come luogo senza luogo dell’intoccabile, come altrove rispetto a ogni investigazione.
Il mistero è dato dall’eccedenza della vita con le sue molteplici manifestazioni, in molti casi tra loro contrastanti. Annota Florenskij che quanto più ci si avvicina al principio, tanto più chiare sono le contraddizioni. Il principio nasce dall’oltre dell’evidenza: ci rivela che la finestra è solo legno e vetro se non viene messa in relazione con la luce solare del primo mattino.

La poesia ci indica com’erano le cose prima che si mostrassero a noi. Il disvelamento dell’essere coincide proprio con la pronuncia della parola poetica, alla ricerca di un impeto albale. La poesia? Sì, perché l’incontro con la fonte originaria non ci permette di parlare con le parole consuete; bensì impone un dire grazie al quale l’essere e l’esistere – ovvero l’altrove e il qui – si possano presentare indivisi, privi di separazione, e tuttavia reciprocamente distinti.

Flavio Ermini