n. 98, Perché la poesia?

 

J’arrive où je suis étranger.
Aragon

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Siamo nati quando la parola poetica era già apparsa. Labbra a noi sconosciute l’avevano pronunciata, strappandola dal caos pretemporale per affidarla al logos. Siamo nati perché la parola poetica ha una natura dialogica. Siamo nati in seguito alle domande radicali che la parola poetica, quale sorgivo colloquio, ci ha rivolto. Siamo nati con la notte preumana del mondo, gettati in terra d’esilio, prigionieri della nostra finitezza, nella precarietà e nella casualità.

Siamo in terra d’esilio. Nel volgerci all’unità perduta, alla nostra pienezza infran­ta, viviamo l’esperienza di una mancanza. È la perdita – incalcolabile – dell’ori­gine il nostro lutto.
Sarà la parola poetica a farci esperire un “prima” di cui avvertiamo l’eccezionalità. Lo farà per rammemorarci il moto aurorale dell’esistenza: quell’arcaico, decisivo cortocircuito che ha aperto all’evento dell’essere.
È a quello stato nascente che dobbiamo tornare. Nell’ora in cui per un attimo le cose si disvelano nella loro natura, nella propria essenza.
Unicamente grazie alla poesia – alla sua origine e al suo destino – è possibile incamminarci fino all’oscurità da cui sorge la luce, riconoscendo che l’interiori­tà dell’essere umano è parte dell’esteriorità del mondo. Il nostro esserci – così strettamente legato al più ampio esserci del mondo – non può essere ridotto a oggetto. Esattamente come a oggetto non possono essere ridotte le parole. Le quali non sono segni convenzionali: al contrario, coincidono con le cose; ne svelano la natura autenticamente albale. Il che comporta un ascolto che ci affida al non del linguaggio, ossia a un dire impossibile che va messo in opera: al di là delle sue luci attraenti e delle sue illusioni. Il fine è di stemperare abitudini mentali consolidate in terra d’esilio, per aprirsi a prospettive di pensiero impreviste, a rivelazioni che non producono conoscenza, ma al contrario attraggono l’esistenza verso una de­stinazione nuovamente principiale. È il pensiero dell’altro inizio, dove le parole vengono spinte fino al troppo del dire, al suo eccesso.
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Neghiamoci alla terra d’esilio. Andiamo dall’altra parte della lingua, dove non è più possibile tacere davanti all’essenziale, secondo quelle caotiche regole che sospendono o invalidano la caduta. Infrangiamo il patto. Introduciamo inceppi e sfasature all’interno dell’apparato linguistico conosciuto. Affidiamoci a regole ancora impensate, ignote alla lingua del capitale e del mercato, perché si fanno lingua della Wildniss precategoriale.
Perché la poesia? Per sottrarci alla caduta; per cercare di risalire all’interrogazione originaria; per parlare nel senso della rivelazione, in una lotta senza tregua con il significato informativo delle parole. In questi tentativi di orientamento, la poesia mette la parola al centro della propria riflessione sull’esilio, inducendoci a ritirare la delega che il nostro rapporto con la natura ha affidato alla tecnica e a volgere lo sguardo all’armonia di un rinnovato incontro con le forme e i fenomeni che chiamiamo physis.
La poesia ci offre l’idea esatta di un costante avvicinamento all’essenza naturale, dove tutto succede perché deve accadere. Ci segnala che dall’altra parte della lingua giunge un segnale di guerra e di sedizione che rompe i ponti con lo stato di esilio e porta ad assentire allo stato di natura: un modo di essere in cui giocano un ruolo importante tutte le facoltà interroganti della parola. Questo può accadere perché dall’altra parte della lingua è ancora presente una comprensione autentica della verità, non legata a una teorizzazione umana, ma a una rivelazione della physis.
Il compito della poesia pare consistere nell’es-cogitare, ovvero un pensare dall’oltre, un lasciar affiorare il non riconosciuto di sé, un pensare che attende di essere pensato lungo oscuri sentieri. Una volta nati, l’oltre è il nostro modo “autentico” di poter essere.
La poesia ci dice che la sostanza comune a tutti gli elementi è l’essere nella sua necessità, nella sua unità e immutabilità. La poesia ci può dare una mano per tornare ad assentire alle leggi armoniche che regolano il ciclo della physis. Lo farà raggiungendo quello spazio linguistico dove l’essere si manifesta e, custodendo la scintilla aurorale, darà con essa inizio a un nuovo principio.
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Detto questo, come compiere il passaggio dal piano dell’esistente a quello dell’es­ sere originario? Come fendere l’aria con nuove ali? Tale decisione si fonda sul linguaggio poetico. Sulla sua essenza, sul suo destino. Ecco perché nell’esperienza poetica è così radicale la volontà di conciliare le vertigini originarie con la vita di tutti i giorni, affidandosi al pensiero.
Questo processo ci ricorda che pensare non è proprio dell’essere umano. È un’on­da dell’essere; è un processo come il fiorire di una pianta. Pensare non è un fatto personale. È l’essere del mondo che pensa anche nell’essere umano. La prospettiva dell’essere non è solo umana, ma riguarda tutta la natura vivente ed esistente.
Nel nostro incerto cammino – dentro la nostra estraneità, verso il sorgivo collo­ quio che ci interroga, oltre la nostra storia individuale – noi cerchiamo la salvezza, pur consapevoli che ogni salvezza che non provenga dal pensiero della physis è ancora precarietà, prossima com’è al pericolo.
Il cammino da compiere implica un cambiamento di forma dell’esistenza, un cam­biamento di vita, un decidersi per una relazione essenziale con il mondo. L’in­tento è di giungere puntuali all’incontro con il pensiero dell’essere, pensato nella sua indivisibilità.
Inducendoci a ritrovare la nostra precategoriale essenza di mortali, il pensiero dell’essere ci chiama a compiere un capovolgimento che non solo è possibile, ma è già sempre in atto. Occorre semplicemente riappropriarci di ciò che abbiamo perduto e individuare ciò che pur trasformandosi rimane identico: la parola poe­ tica. Una parola sciolta da qualsiasi forma; una parola divenuta, per così dire, “assoluta”.
In questa parola si manifesta la legge dell’esistenza, secondo cui la volontà tesa all’incondizionato deve attenersi a un’armonica condivisione con le forze naturali, se non vuole perire. Una condivisione dettata da leggi primordiali; compiuta nel modo più puro in un movimento essenziale, senza che sia necessaria alcuna dimo­ strazione; prodotta da un intreccio indissolubile fra esperienza poetica e apertura storica all’essere: il principio primo.
Quel principio è l’incondizionato del sapere umano, posto oltre la portata della ragione umana; il principio che s’istituisce come ciò che rimane sconosciuto in ogni vita che nasce: il non realizzato, ciò che non è mai nato; ciò che alla nascita abbiamo perduto e che forse non è mai stato.
Quel principio è il riconoscimento della soglia che separa e unisce l’essere e il suo apparire. Da lì, da quella profondità abissale una voce edenica chiama proprio l ’uomo.
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Ecco perché è sbagliato concentrarsi sulla puntualità dell’ora. Va riscoperto quel pensiero in rivolta che – unico – può opporsi alla mistica della tecnologia oggi imperante e che ci impone di pensare e volere tutti le stesse cose. Un pensiero che non si conformi cadavericamente al freddo calcolo e al consumo.
Ciò che va pensata è una storia di fatti che, pur non essendo mai stati narrati, costituiscono la nostra storia, inducendoci al cospetto del vero.
Ciò che va pensato è il tempo privo di tempo. Ovvero il vincolo profondo che lega ogni parlante – in quanto parlante – all’essenza della lingua, dove risuona anco­ra – incorrotta – la parola ante rem, un dire originario in cui nome e cosa sono ancora indissociabili, sono uno.

 

                                                                                                                                                            Flavio Ermini