n. 97, Per oscuri sentieri

No, la parola d’ordine per gente come noi è:

avanti verso la tua essenza!

Trakl

Gli esseri umani si sono smarriti perché si sono abbandonati alle apparenze, consentendo così al molteplice d’imporsi come una vera e propria potenza nell’attribuzione dei nomi. In tal modo, il linguaggio ha iniziato a dire «è» riferendosi alla molteplicità, quando invece avrebbe dovuto assegnare l’essere esclusivamente all’Uno originario.

Il superamento delle apparenze richiede una lingua “accogliente”. Una lingua venuta a dire agli esseri umani che la verità si annida in una zona incerta, indecisa: nella loro essenza; ovvero oltre il sensibile: nel suo lato oscuro, in ombra. Nel suo altrove. Questa lingua cade fuori dai sensi e si costituisce quale terreno per il permanere di tutte le cose nell’interezza.

Il destino essenziale dell’uomo è determinato da questa sua possibilità di aprirsi al mistero dell’essere, la cui alterità va riconosciuta come propria interiorità. Come? Si tratta di convertire l’aperto nella scommessa di passi ulteriori. Per esempio, dire il margine da cui ogni apparenza incessantemente sorge e in cui torna a permanere. Ovvero il frammezzo che ci fa essere, al di là dell’orizzonte di senso che ci fa semplicemente vivere.

La parola poetica ha il compito di riportare a unità ciò che fin dal principio è stato diviso: una funzione rifondativa che impone di rifuggire dalla paralizzante convenzionalità del segno informativo. Una funzione rivoluzionaria: esattamente come accade in “Anterem”, nel flusso eracliteo delle sue pagine, dove i dispositivi linguistici non sono atti a nominare le cose, ma la loro essenza.

Il dire poetico ci fa prossimi alle dimensioni di apertura che consentono di accedere all’essere, al fine di tornare a dargli unità e parola. Conferma Heidegger: «Nella parola si rivela l’essere di quanto è nominato. La parola, infatti, nominando l’essenziale, recide l’essenza dalla non-essenza. Questo oltrepassamento è la conseguenza e il segno di un dire che comincia in modo più iniziale». Questo oltrepassamento fa sì che l’essere sia essere: qualcosa che gli impedisce di affondare nel falso movimento dell’apparenza.

Nella scrittura del poeta parla la parola che assume su di sé la funzione di pensare le cose in quanto «consistono di essere» come precisa Anassimandro. Quell’essere che si trova sempre a fondamento: presente sia nel delimitato sia nell’indefinito. Tanto che risulta necessario uno sguardo più avvolgente e ravvicinato per nominarlo.

È la scrittura in primo luogo a parlare, mai l’essere umano, il quale ha un unico compito: quello di corrisponderle a partire da quell’intreccio di linguisticità e mortalità che costituisce la caratterizzazione storica dell’esistente.

Perché esaurire e irrigidire in una definizione le sfumature insite nell’accadere della vita? È evidente la corruzione del linguaggio che progressivamente s’irrigidisce e non sa più cogliere i nessi strutturali che stringono insieme le umbrae interiori e le umbrae esteriori.

Attribuendo ai nomi significati rigidi e immutabili, l’uomo ha fatto sì che essi risultassero del tutto estranei alle vicissitudini della physis. Il mondo non è se non nello specchio dell’antidiscorso. È qui, nell’aperto linguistico; cioè altrove, dove risplende nella misura in cui essenzialmente accade.

La parola poetica non può essere usata per portare qualche sollievo sull’arido cammino del pensiero. Se la parola comunica qualcosa al di fuori di se stessa corre il rischio dello scacco. Il suo dire poggia sulla propria verità: una funzione rifondativa e rivoluzionaria che conduce oltre le voci effimere dell’estetica e dei generi letterari.

Osserva Trakl: «È bene guardarsi dalla bellezza perfetta, definita; ci si risparmia solo una vista ingannevole. No, la parola d’ordine per gente come noi è: avanti verso la tua essenza!». Per «gente come noi» è necessario seguire gli oscuri sentieri dell’interiorità, anche se i suoi abissi sono colmi di angoscia e di sofferenza; anche se nei suoi crepacci vige il nucleo del più profondo ammutolire.

È necessario incamminarci verso tale principio. Giungendo ad affidarci al pensiero dell’ingens sylva del nostro stato arcaico, tra fenomeni che ci trascinano in un vortice d’indeterminazione, in un incontro fra stranieri che non parlano la stessa lingua. Qui ogni atto creativo di poesia ci parla di questo passaggio: il passaggio dalla «non-essenza» all’«essenza».

La nostra stessa vita va considerata come un carattere strutturalmente connesso all’evento dell’essere. È necessario prenderne atto per imparare a pensare di più e a parlare con maggiore proprietà. Ma quanta fatica richiede la ricerca di una parola che sia in grado di dare parola all’essere! E quanta fatica richiede l’acconsentire a un pensare che ci consegni al segreto di quella parola che parla da un’altra lingua.

Flavio Ermini