n. 94, Non c'è fine al principio

 

 

Non m’interessa pensare al mondo al di qua del mondo.

Nietzsche

La poesia è il luogo che ospita la domanda sull’essere, testimoniando la profondità della physis quale si era rivelata agli albori del pensiero.

Non c’è fine al principio. Nella poesia la natura può ancora parlarci come all’origine parlava. Grazie alla poesia le antiche parole tornano alle nostre labbra. Sono parole strappate al silenzio; vere, quanto è vero lo sgomento dinanzi all’inconoscibile. Vale la pena di assumerci questo compito affinché ciò accada.

Il lavoro poetico ci induce a pensare oltre ciò che appare; oltre le singole cose che dalle tenebre si levano nella chiarità. Ci svela che sonno e veglia, luce e notte sono solo riflessi evanescenti, non testimonianze dell’essere.

In realtà, tutto resta uno, mentre i mortali, ingannandosi, ritengono che vi sia una molteplicità di cose e che tale molteplicità sia soggetta al mutamento del tempo, alla sua numerazione cronologica. In verità, non ci sono né il sorgere né il trapassare, ma solo l’eterno presente dell’essere.

Il lavoro poetico è chiamato a condurre la natura a svelarsi per quella che è, oltre le nostre opinioni. È chiamato ad aprirsi all’annuncio della physis come potenza, quale energia dell’essere; per farla parlare; per indurla a presentarsi sulla scena della storia dell’uomo.

È quanto fa dire a Hölderlin: «Molto si trova, dunque, e il più nella natura».

La poesia impone di accettare l’essere nel modo in cui si dà; e implica un interrogarsi sul venirci incontro della molteplicità, un interrogarci sul come la parola può salvaguardare l’essere dall’apparenza. La parola è poetica – e quindi è vera – allorché fa sì che l’essere sia. È in questo “lasciar essere” che essa ne svela il senso. La parola è dunque presso la cosa quando ne preserva la differenza.

Il lavoro poetico mette in evidenza non solo il venire alla presenza dell’essere, ma anche il suo sottrarsi. Mette in evidenza uno strappare all’occultamento e alla latenza, un portare a manifestarsi, proprio come suggerisce la parola che indica la verità come svelamento: a-létheia. Conferma Schiller: «Nell’abisso dimora la verità», per aggiungere subito dopo: «Nessuna barca o ponte conduce oltre questo orrido abisso, / né l’ancora raggiunge il fondo».

Va pensato più intensamente l’inizio del pensiero: la verità non consiste nella correttezza del giudizio, bensì nella coappartenenza di velamento e svelamento, in quanto verità dell’essere. Ma come potrà l’uomo accedere a questa esperienza se ogni volta che parla la occulta, proprio attraverso ciò che dice?

Lo indica George quando precisa che non si tratta di andare alla ricerca di «meraviglie e sogni» e di trovare poi le parole adatte per descriverli e rappresentarli. Eccolo l’accadere della parola poetica: «Andare verso qualcosa e costruire quella cosa stessa» come impone Silvano Martini riflettendo proprio sul verso di George:

«Nessuna cosa sia dove la parola manca». Proprio grazie a questa esperienza si schiude una traiettoria di domanda, una direzione di ricerca che porta oltre i generi, verso l’interrogazione della natura, una ricerca che fuoriesce in modo esplicito dall’apatia del pensiero, ovvero dal nostro contegno quotidiano verso le cose, dal nostro contegno opinante, quello che ci fa erroneamente pensare la verità come la concordanza di un’opinione dell’essere linguistico con un fatto.

La via del pensiero seguita dalla parola poetica conduce fuori dal regno dell’opinione e dell’apparenza per guidarci verso l’autenticamente essente: la physis.

Il tempo dei grandi sistemi è finito, ma ancora non è giunto il pensiero che porta all’essere a iniziare dalla sua verità.

È un percorso difficile perché la verità non si manifesta secondo valori eterni e immutabili, ma mettendosi in circolo con il lumeggiare di un pericolo che improvvisamente si mostra. È la notte che scende d’un tratto. È il disastro connaturato allo stare al mondo. È la finitudine in cui imparare a vivere. È il nostro compito quando abitiamo poeticamente la terra. Conferma Heidegger: «Noi guardiamo entro il pericolo e scorgiamo il crescere di ciò che salva». Questo è il gesto che affratella pensiero e poesia.

Va accettato l’abisso; non addomesticato per addolcirne l’angoscia. S’investono più energie per ripararsi dal pericolo che per favorirne l’accoglimento.

Riflette Eraclito: «Ascoltando non me, ma il logos...». L’esclusione della soggettività e della manipolazione dell’interprete segna un passaggio fondamentale: dalla nominazione delle cose per come sono vissute da chi le narra alla loro nominazione per come si danno.

Il lavoro poetico consiste in quella “raccolta” originaria dove le cose giacciono nella loro esposizione e, così esposte, si offrono alla presenza. Eckhart parla della necessità «di essere uguali alla verità di cui vogliamo parlare», proprio come scrive Margherita Porete quando impone di essere la physis stessa, di non avere un sapere separato dall’essere, di non guardare all’essere come a cosa diversa da se stessi. Va compiuto fino in fondo il faticoso processo di liberazione dall’estetica che assimila la natura alla ragione e cerca fondamenti scientifici, postulati di verità alla bellezza. Quando si parla di poesia va seguito compiutamente il pensiero che vuole pensare al mondo al di là del mondo.

Flavio Ermini