n. 90, Le vie dell'errore

 

Le parti mutano, ma tutto è immutevole.

Anassimandro

In questo numero di “Anterem” poniamo a tema l’esposizione del dire letterario e filosofico alle vie dell’errore.

In estrema sintesi e in rapida successione, anticipiamo qui di seguito i nuclei di pensiero che sommuovono in profondità i testi poetici e le riflessioni saggistiche.

  1. L’essere umano si colloca all’incrocio tra un esserci visibile e provvisorio (carat- terizzato dalla varietà molteplice delle apparenze) e un essere invisibile e defini- tivo (quale si configura l’essere). Ecco perché scrivere significa lasciar coincidere i contrari: la verità dell’essere e l’errore dell’apparenza.

  2. L’essere, in quanto invisibile, non può manifestarsi che nel proprio occultamen- to. Per cogliere la sua verità, al poeta e al filosofo non resta che trovare un transito nel divenire; sperimentando così le vie dell’errore.

  3. Porre la parola in relazione con l’evento del molteplice significa ricordare a noi stessi quanto avevano registrato i più antichi pensatori: che il nostro muoverci senza sosta è apparente.

  4. Scrivere è un gesto estraneo alla chiusura nell’intimità; non è un ripiegarsi su di sé; è fare i conti con l’insieme di tutte le cose che vengono al mondo con un destino di morte e aiutarle a compiersi nell’essere.

  5. Va da sé che solo interrogando l’esserci – l’errore – si può riflettere su cos’è l’es- sere. Ecco perché si dice che proprio nell’errore è in gioco qualcosa di essenziale per il pensiero.

Volgendosi a tali questioni, il numero 90 di “Anterem” certifica la necessità di una parola che si faccia interprete del rapporto irriducibile che separa e unisce nella loro distinzione essere e divenire. Registra l’urgenza di una poesia che si ponga in ascolto del canto delle sirene per confutarlo; una poesia che annunci l’insicurezza fondamentale della vita, contro la quale non valgono ripari né rifugi. Una poesia che operi una rivoluzione del testo, aprendolo all’abitare originario, ante rem.

Abitare poeticamente la terra, proprio come impone Hölderlin, significa fare di professione l’essere umano e proporsi di allontanare il linguaggio dalle sue facilità e stasis menzognere. Significa corrispondere all’essere e riconoscere che le possibi- lità umane – soprattutto quella di vedere nella vita il luogo di costruzione di un senso – non sono che illusioni: luna e stelle da teatro.

Troppo poco noi sappiamo dell’essere. È comune la tendenza del pensiero a iden- tificare l’essere con il darsi della presenza afferrabile, visibile… Il pensiero occi-

dentale si sviluppa proprio così: identificando l’essere con la presenza. Lo stesso termine platonico di idea lo dice, grazie a quel suo nesso etimologico con la radice id che ha in comune con il verbo vedere. Ciò ha fatto sì che, come può constatare Nietzsche, «il mondo vero alla fine è diventato una favola».

Liberiamoci dunque dalle favole e dalle illusioni. E operiamo in modo che sia l’esistenza stessa a parlare, a dire poeticamente quel medesimo che, manifestatosi nella physis e poi ritiratosi nel nascondimento, è nuovamente capace di storia grazie alla parola poetica.

La comprensione dell’essere assume la forma del colloquio poetico tra essere e mortali, e indica che pensare davvero vuol dire interrogarsi su quella difficile me- scolanza di essere e divenire che contrassegna la doxa e che costituisce l’ambito in cui soggiornano i mortali.

Pensare davvero significa andare alla produttività originaria dell’essere che si di- spiega. Pensare davvero costituisce un patire senza soggetto e senza oggetto; è un volgersi al celarsi stesso dell’essere; è un volgersi all’ombra.

Essere implica non solo donazione, ma anche rifiuto; non solo manifestazione, ma anche occultamento. Lo denuncia la parola a-letheia, formata da alpha nega- tivo. A questo proposito va sottolineato, come fa Heidegger, il fatto singolare che la filosofia delle origini esprime la verità con un termine “negativo”, pensandola come disvelatezza e quindi come qualcosa che va conquistato, strappandolo all’oc- cultamento.

Come non cogliere, a tale proposito, l’importanza del poema di Parmenide, che, dopo la prima parte dedicata alla via verso l’uno originario, vuole rendere conto anche della via dell’errore, cioè quella che conduce all’esilio nel molteplice appa- rire?

Noi siamo nell’apparenza, noi siamo nell’anti-verità, noi siamo nel mutamento. Ma che tipo di velatezza della verità è questo nostro errare?

Confrontarci con le vie dell’errore significa riconquistare un rapporto genuino con il pensiero, quando il pensiero è albale apertura all’essere. Pensare la “prima via”, quella dell’essere uno e immutabile, non esclude l’obbligo di interrogarsi anche sul perenne fluire delle cose, sul divenire, sul non-essere, cui ci inducono i sensi ingannevoli e le opinioni dei molti.

In ultima analisi, il confine con il quale misurarsi è quello che noi poeticamente abitiamo, intrattenendoci sull’ampia soglia tra l’apparenza delle forme e ciò che a ogni momento le contraddice in una continua chiamata all’essere.

«Le parti mutano» asserisce Anassimandro, facendo riferimento al mondo can- giante delle cose e dei suoi limiti temporali e spaziali; «ma tutto è immutevole» precisa, facendo cenno alla totalità dell’essere; consentendo in tal modo ad Anti- maco di Colofone di concludere: «Nulla nasce né muore».

Flavio Ermini