n. 79, Tu

Guardai me e te
E guardai gli altri
E non bastava ancora
Inge Müller*

1.  

La scrittura poetica chiama in causa a ogni parola la pluralità delle parole di cui è composta. A ogni battito temporale, nella parola viene convocata l'intera sfera mondana.  
La scrittura poetica abita un mareale presente, dove le forme emergono e svaniscono, lasciando minime tracce; e dove ciascuna forma è intimamente collegata alle altre, in un destino globale di composizione dell'essere.
Queste forme di vita tendono a farci riconoscere la struttura metamorfica dei fenomeni anziché quella consolidata.
Le contraddizioni che avvertiamo sono conseguenti alla nostra incapacità di dare significazione e senso ai dati in atto.
Il tempo della scrittura poetica trova corrispondenza nell'«infinito eccesso del verbo», nella più grande disparità dei suoi lacerti, come se il peso della materia verbale si risolvesse totalmente nell'imponderabilità di un'energia universale. 


2.

Al centro della scrittura poetica c'è il concetto di spazio. Uno spazio che si manifesta come genesi di mondi: venuta incessante di forme e presenze che, pur sottomesse alla caduta,  ci  parlano di ritorno e rinascita.
Nella scrittura poetica è inestricabile il legame che viene a crearsi tra spazio e tempo. Da questo legame apprendiamo quanto breve sia il volo terreno e quanta energia esso riesca ad esprimere.
Siamo osservatori e insieme costruttori di uno spettacolo che affonda in plaghe remote e ci fa misurare il valore della nostra fugacità.
Le pagine di letteratura che "Anterem" presenta in questo numero indicano come il persistere e il transitare si compenetrino intimamente, in un possente movimento endogeno. Porgono l'immagine dell'ascendere di una forza vitale da inesplorabili profondità.
Nel loro affiorare e offrirsi alla lettura, per poi capovolgersi ogni volta nella forza oscura della cancellazione, sta il rinnovarsi continuo del senso.
Questo spazio che va materiandosi in parola testimonia la suprema importanza del pensiero capace di non smarrirsi davanti all'enigma.


3.  

Il tempo e lo spazio della scrittura poetica sono abitati dall'io, sempre preso nel cerchio di una riflessione il cui oggetto è rappresentato dalla sua identità.
Il tu è colui che lo incontra: si oppone e si integra a un tempo con l'io, ma sempre secondo una strategia sovversiva: dischiudere attraverso la parola le vie dell'ascolto e della metamorfosi stessa di sé.
Il tu è qualcosa di più di un destinatario: è il congegno che fa saltare l'ordine istituito dal noi e dal processo dialogico che lo presiede, innescando un movimento di rivoluzione.
L'incontro con il tu è l'atto che, inaugurando un'apertura verso l'inconosciuto, rompe con la tradizionale propagazione dei saperi e il suo circolo dialettico.  
Il tu viene alla parola mantenendo la propria alterità. Ma non un'alterità neutrale o parallela. Il tu viene alla parola come un'antimateria che perturba radicalmente l'ordine e la creazione. Scrive il suo essere chiamato a dire e parla il suo tornare alla parola ortiva.
Aprendosi un varco attraverso il tempo e lo spazio, la figura del tu si lega con l'esperienza di un movimento verso ciò che continua ad accadere.
Il tu si fa presente quando la parola appare come congedo verso ciò che si nomina, quando ogni discorso è chiamato a sciogliersi della violenza del grido e il pensiero abbandona anche l'interiorità della coscienza e diventa pensiero del limite.
Non trasmette alcun messaggio, non ha nulla da comunicare. Semplicemente appare.  
Nel tu, l'io si riflette e si ripete, moltiplicato. «Tu hai inteso una lingua di stranieri» annota con precisione Hölderlin.


4.

Il tu, come pensarlo? Occorre uno spazio ulteriore: una soglia dove suono e silenzio - ovvero chi pronuncia e il mondo che viene pronunciato - sembrano obbedire a identiche valenze. Qui uno spirito unificante congiunge l'uomo alla natura.  
Il tu non ha un corpo, ma condivide con i corpi un tratto essenziale: la nudità. Per questo dice qualcosa che ci riguarda intimamente, qualcosa che ci tocca in modo essenziale. Si lascerà conoscere solo a patto che nel pensare siamo disposti a essere trasformati dall'incontro con la parola, per disporci ad accogliere un altro pensiero, un sentire che si misuri con l'esperienza poetica.  
Nel tu ogni cosa scorre, oscilla, incombe. In questo incontro non è possibile pianificare ciò che viene, né riordinare ciò che è stato. Non resta che aggrapparsi con tutta la vigilanza possibile a quel punto in cui si sta e che si chiama esistenza.


5.

La parola poetica nasce nella natura interrogante dell'esistenza, di cui il tu è testimone. È una sorta di allocuzione infinita che segue le tracce dell'assente: uno spazio interrogante che si delinea sempre più come un luogo in cui l'io si proietta fuori di sé e nella lingua riesce a portare a compimento ciò che muta del sapere.
La frase poetica rompe l'isolamento dell'io. Lo invita alla prossimità con il tu e con l'enigmatica opacità che lo circonda, dovuta alla sua lontananza temporale e spaziale.
Nel testo risuona così il movimento dal detto al dire, fino al dire altrimenti, che si curva irreversibilmente in un dire all'altro, in un portare e porre la domanda, nello scuotere il minaccioso dogmatisno del logos paterno con l'antipensiero.  
Il tu è chiamato a dire questo nuovo sapere, che implica un sovvertimento dei sensi: recuperare sulla terra i tesori che erano dispersi nei cieli. 


6.


Sempre precaria, la scrittura poetica è minacciata, esposta. Riconosce il tu senza sottrargli la sua singolarità.
Il carattere del possesso impossibile del tu e della bellezza di tale impossibilità si fa presente nell'abitare dell'uomo. Un abitare di cui la poesia è misura, ma è misura esorbitante.
In questa dimensione, che si fa riconoscere nell'oscillazione fra presenza e assenza, riconosciamo il precipizio dell'assenza di fondamento.
Scrive Nietzsche: «Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non abita su di noi lo spazio vuoto?»
Tutte le dimore che possiamo edificare nel tempo sono provvisorie. Il tu segna ogni volta le loro mobili frontiere. Ci allontana da noi stessi e dalla nostra storia, per avvicinarci sempre più al principio: un incontro sempre rinviato, sempre annullato, cancellato, ma mai dimenticato.
Sopportare la durezza e la solitudine dei luoghi che s'incontrano è la condizione di questo turbinoso avvicinamento, nel corso del quale il tu combatte la sua estrema battaglia, come avamposto perduto e sentinella del nulla. Sarà proprio questa accettazione del nulla che permetterà alla scrittura poetica di sperimentare ancora una volta la molteplicità dell'io e la frammentazione della sua lingua.
Le meditazioni sul tu che abita la scrittura poetica ci indicano che dopo l'attraversamento dell'estraneità - attraverso un'interiorizzazione che trapassa nella più radicale esteriorità - è possibile delineare quanto ci è proprio. 

Flavio Ermini

* Da: Inge Müller, Liebe nach Auschwitz [Amore dopo Auschwitz], in “Anterem” 64, giugno 2002.