Giovanni Turra Zan: Nota teorica e poesie edite e inedite

In “Finders Keepers” (“Chi lo trova se lo tiene”, mia traduzione) Seamus Heaney ci offre un cocente resoconto di un attacco d’ansia di cui egli fece esperienza quando, per la prima volta, incontrò la poesia di T.S. Eliot. Ciò avvenne negli anni ’50, in un tempo in cui Eliot era considerato, dai poeti anglo-americani, la Luce  e la Via: un nome sinonimo della stessa poesia moderna. Ad Heaney fu consegnata a scuola una raccolta di poesie di Eliot “come fosse un pacco di cibo”, e tuttavia, invece di procurargli  un piacere tanto atteso, gli causò qualcosa di più simile ad un attacco di panico.  I versi di Eliot viaggiavano ad una lunghezza d’onda così inaudita per Heaney, da sembrargli lo stridio di un pipistrello. I sintomi fisici che Heaney provò (un crescente nodo alla gola, l’irrigidirsi del diaframma, ecc.) non si attenuarono in seguito alle letture successive del testo eliotiano. Al contrario, e per anni, “Eliot mi faceva paura, mi imbarazzava e mi faceva sentire minuscolo; mi faceva venire voglia di invocare la Madre dei Lettori, affinché venisse presto e avesse pietà di me, e mi offrisse la pacificazione di un significato parafrasabile e di una struttura ferma e riconoscibile”. Stava esagerando? Non credo. Nello stesso momento in cui egli ci invita ad identificarci con la triste condizione dello scolaro, Heaney ci dice anche che l’acuta ansia che sta descrivendo non è la semplice reazione di un giovane studente di letteratura. O non solamente questo. Noi tutti apprendiamo da Eliot, così come da altri autori, che una poesia non può mai portarci completamente oltre la sua lingua, in un luogo limpido e precisamente a fuoco, come se la sua “oscurità” fosse acqua torbida che una razionale ed intelligente lettura ed interpretazione potesse rendere trasparente e chiara. “Una poesia deve resistere con successo alla razionalità” è l’affermazione schietta, e abbastanza facile da accettare, di Wallace Stevens. Ma ciò che per me è così attraente in Heaney è la franchezza con cui ammette l’ansia causata dal non comprendere. Quando W. Stevens scrive: “Un uomo e una donna/ sono uno”, lo possiamo capire senza difficoltà. Ma quando scrive: “Un uomo e una donna e un merlo/ sono uno”,  questo può sconcertare il lettore. Ci incamminiamo qui in un sentiero fragile, nell’ansiosa speranza di arrivare presto o tardi ad un principale, inequivocabile significato della poesia che includa il merlo. Ma forse, perdere l’orientamento è una parte fondamentale del processo. Il campo da gioco in cui si pone il titolo della raccolta di prose di Heaney, “Finders Keepers”, ha come controparte lo smarrimento, la perdita di qualcosa.

Una dichiarazione, che Heaney fa in un capitolo successivo, riesamina la mia immagine del percorso: “La poesia è più una soglia che un sentiero, qualcosa da cui costantemente ci si allontana e a cui continuamente ci si avvicina, e presso la quale lo scrittore ed il lettore si sottopongono, in modi differenti, all’esperienza di essere allo stesso tempo rilasciati e convocati”. Forse è stata l’immagine dello spazio della soglia, così come il tema dell’ansia e della perdita, che mi ha fatto venire voglia di ridare un’occhiata alla storia, raccontata da S. Freud in “Al di là del principio del piacere”, del bambino e del gioco del rocchetto. Il bimbo, nel tentativo di far fronte alla sofferenza causata dall’allarmante abilità della madre di scomparire spesso per ore dalla sua vista, inscenava un gioco ripetitivo: tenendo in mano lo spago, scagliava con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo letto, di modo che l’aggeggio sparisse. Contemporaneamente emetteva un suo caratteristico suono, che Freud aveva intuito avere il significato di “via!”. Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua riapparizione con un festoso “eccolo!”. Questo gioco così ossessivo rappresentava la presenza e l’assenza della madre. Così almeno ci racconta Freud. Parte dell’attrazione che ha per me questo racconto, viene dall’identificazione che mi piace fare di tale bimbo con la figura del poeta. E’ quindi l’idea che il desiderio della presenza e l’effetto dell’assenza sono interdipendenti, si coinvolgono, si implicano e stimolano vicendevolmente ed in modo continuo. Il gioco del “via!” e del “eccolo!” è un gioco giocato dal poeta nel piccolo teatro che è ogni suo verso. Con la Madre dei Lettori a tenere la mano del poeta, le parole giocano i loro ruoli familiari con una logica rassicurante e consolatoria: lì c’è uno statico sostantivo, là il verbo attivo, più in là ancora gli spazi e le prospettive aperte dalle preposizioni, ecc.. E soprattutto, da questa parte, c’è la rigida dualità e la separazione dei soggetti e degli oggetti. Nei fatti poi, la necessaria grammatica della frase predispone il mondo ad un ordinamento da cui dipende quotidianamente la nostra salute mentale. Questo, direbbe Yeats, è “il linguaggio della sala da tè”. Improvvisamente però, nel flusso rassicurante delle frasi, si creano degli elementi di disturbo. Le parole vengono organizzate in linee, le linee in versi, la sintassi viene aggirata, con inversioni e iperbati, epifrasi a formare pattern di materia fonico-musicale. E questo menzionando solo alcune delle articolazioni possibili, delle “spaccature” che la forma poetica introduce nel linguaggio. La metafora si porta via il senso letterale e la Madre è caduta nella botola, fuori dalla vista. Ci ritroviamo così in una zona paurosa, ma vivida, che Yeats descrisse bene come Phantasmagoria, dove la nostra consapevolezza della soggettività degli oggetti e dell’oggettività dell’emozione soggettiva diviene eccezionalmente possibile. Ed è proprio qui che iniziamo a discernere il senso, ogni volta rifoggiato e ricreato, della poesia. 
 
 
 

Da Il Lavoro del luogo, Fara Editore 2007
 
 

si preferiscono certo lumi di luce gialla

al ritorno, alla fatica di concorrere

nei tempi: quelli dicevi allora persi. 

alzati di buonora il mattino che il mattino è dove

le cose restano fresche nella testa e il cervello ha

la temperatura del caseificio e l’uguale scambio

di materie liquide in idee. non si fa tardi non serve 

insistevi che la notte è della morte o dei tralasciati.

 

un grido, la lingua dei fastidi è saliva

stantia, sputi, stacchi o baci raffermi:

come si fa d’inverno a non vaccinarsi? 

con l’umido fai un’immunità e allontani

il sequestro del freddo sotto un piumone;

il convertitore ribalta i chilometri in pianti

tra restare con la casa che si sfa e andarsene 

scegli ora, entrambi.

 

l’origine riflette ogni stasi, l’opera sfuma

e si lascia dietro odore di macero e carta

unta. anche la camera riconta i vuoti. 

stai a rivelarci quel giusto mezzo se come sei

procuri maremoti. ricordarti è pena

o si preferisce quella foto in cui stai

in cima ai concimai di fine marzo.

 

si danno gli ordini, intanto che al macello

ci sono uomini. non so infatti checcazzo 

si faccia ora dicevi. ridondano al fine le convinzioni

e non ci sta con la testa, ed è come un vento, oggi.

e c’è la disco-music dietro le carcasse di vacca

e si balla, gesù. si balla come dei matti.

 

perdona se nel conclave degli orti stavamo

come gentili ad innaffiarci e crescere

mettere radici nei luoghi arresi al pensiero 

che non più uno spostamento fosse possibile

una fuga imbranata dal vizio di riaprirsi

comunque considerare che sia spaesarsi

del canto che qui non germoglia. basta il fatto

generato vedi a farci confluire, a catturare

metro su metro la collana dove infilare

le liti. almeno ovunque ne riparleremo

smotteranno cumuli di fango e, cielo, avremo

          gli anni dalla nostra.

 

occorre morire prestino

pensavi, e lasciarti erede del bene

di noi nella storia, tra gli argini dove 

libero è il nostro fiume, raccolte le pianure.

prestino, così da permetterti ogni codardia

così che non lasci debiti sul contatore

sullo scatto dei numeri, sul computo

dei registri del pianto e non i figli come

appoggio, ma i nasturzi sul terrazzo,

ed il vecchio galantuomo che sa

di latino e di greco, rimasto a tenerti

     le mani.

 

i contorni formano l’arco dei legni,

il quadrato su cui appoggiare l’ansia

ha la sua rada classificazione

la sistematica 

elencazione dei contenuti in un numero

un codice per il prestito della memoria

il cui interno dà sul prato, e se vedi

lampade proiettare l’ombra ti fai serpe

e faina per cancellare il nome dall’elenco

degli esistenti, per lasciare poche tracce

scarseggiando un’asse di risposte sulle leggi

           della quiete.

 

Da “Stanze del viaggiatore virale”

(di prossima pubblicazione con le Edizioni L’Arcolaio di Forlì)

 

purché sia ragione il volo, siamo noi

ad inquinarne il lampo: o torni o vai,

o lasci l’impero nella rabbia, sfai

le vesciche, gli stomaci e con questi

reggi cornamuse. dove borbotti ora sei

bordone al servizio d’una giga. il calvario:

sul ciglio sosti a raccattare semi e gramigna,

ne fai un erbario che è croce di natura, pannello

di secchezze e mostra aperta ad un incerto orario

 

la casa frena e sta su lastre di ghiaccio.

all’interno fatiche si posano, appendono

le attese e il sonno sulla stufa a legna

dove la cura del giorno s’incaglia

nei ruggiti dei transistor del dubbio.

cambiano le attitudini, le anime

attive e pare un cantico la vista

del bollito che si affastella sul vassoio

con le bisce a contorno, la scarpa

nella pentola del minestrone, l’ago

da cucito servito sulla trota salmonata,

tuffatosi dal grembiule della sarta. 

ci si sta addosso a natale, come

un’ossessione della generazione

che non si estende, che non ha code.

 

si celebrano qui le indecisioni

le acustiche sibille, gli echi amorfi

nelle miniere. eloquenti saranno

i termini del virus, e il disprezzo.

certo, il virus rimane a riposare

per anni e gramo si rifugia sotto

la parola, nella zona dorsale

di questa: sa il suo anticorpo il libero

radicale. come se la parola

lo accogliesse serpe-in-segno, come se

si dispiegasse nell’antro, sferrasse

l’attacco che diviene tradimento

e cancella le visioni. s’inforna

per posarsi a caldo come vescica

sulla pianura della lingua. il senso

della capitolazione al silenzio.