Sandro Varagnolo, da una raccolta inedita, nota critica di Giorgio Bonacini

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Una lingua che riversa in poesia e non altrove o in altro modo le sue sonorità cariche di vibrazioni e riverberi inquieti, e portatrice di una qualità di senso febbrile (per usare un efficace e centrale termine dell’autore), ma nello stesso tempo una lingua sottratta a un uso estraneo a ciò che il dire poetico si prefigge, cioè senza stenti banalmente comunicativi, è una lingua che non può, allora, non “sovvertire i discorsi”. E lo fa con una naturalità interna che, pur nella trasformazione e nel rivolgimento a cui dà luogo nel suo percorso indicativo, riesce ad agganciare il reale, screpolandone la scorza e mettendone in forse le certezze e le virtù credute tali.

La raccolta poetica mette in atto un sommovimento interno alla parola, tale da aprire con fermezza all’esterno, senza però abbracciare nessuna verità (che in quanto tale e ingenuamente pensata essenziale, si presenterebbe come dogmatica), ma che “nell’ambiguità degli strumenti e delle alternative” cerca lucidamente, ma anche emotivamente, il suo pensiero. La parola scritta di Varagnolo sembra non avere mai un attimo di pace, ma è sempre armonicamente in tensione; mai dileguata, mai abbandonata a momenti che non siano sempre accoglimento di una civiltà della poesia, necessaria affinché la voce divenga esperienza della lingua e del suo dire. E la scrittura possa aderire alla vita senza confondersi, ma restare accanto, esplorare, perdersi anche, e congetturare e indignarsi. E se anche la poesia prende avvio da una conoscenza che strapiomba dall’oscurità, e non sempre il sapere a cui conduce è riconoscibile come tale, ma sembra sfuggente o dirottato su sentieri inesplorati e dunque di difficile interpretazione, ebbene anche lì, anche nell’ “imminenza della catastrofe il fare poetico riesce ad agganciare la perseveranza di un nome o l’eco in lontananza di una memoria o l’inizio apparente di un labirinto di percezioni allusive. E’ allora che dall’affanno si scatena una scintilla che apre all’interrogazione e alla reinvenzione del reale e del vero, demolendo man mano “l’impostura del senso” univoco e compiuto. Per l’autore, ciò che è imprescindibile e che deve essere proprio della poesia è il non dare tregua e continuamente sondare l’inesauribile sentimento pensante che all’essere umano viene dall’ ”infinita cecità della vita”. E nonostante questa ferita, questo dolente sentire, bisogna continuare a perlustrare anche là dove ciò che resta sembra ineffabile, effimero, usurato.“La lingua imprigionata si dissipa”, dice Varagnolo, con ferma consapevolezza che si deve mantenere il dire nel vivo corpo di una musica scritta, che interpreta il mondo e a lui si rivolge opponendosi e cambiandolo.

In questa raccolta sembra porsi con urgenza il tentativo di ricomporre sapienza e saggezza, perché la poesia non si perda e non dimentichi se stessa in qualche recesso sottratto all’ascolto. Ecco allora che il senso si presenta con le sue modalità e pulsioni estetiche ed etiche, nessuna disgiunta dall’altra. E non sono secondarie le citazioni che introducono le parti della raccolta: Dante per il riconoscimento che si deve a un maestro di poesia; Eliot per il dolore prefigurato dall’evocazione; Stevens per la conoscenza percepibile che viene dal pensiero. Pilastri che sostengono il canto, che dal canto sono richiamati e insieme a questo vivono. Giorgio Bonacini