Prima pagina/1, Per Marosia Castaldi: Antonella Cilento, “Nelle mani di Marosia”

Mentre penso a Marosia Castaldi e alla sua opera, e al mio personale ricordo di lei, ho tra le mani una nuova edizione de I Sonnambuli di Hermann Broch e leggo la nota di Milan Kundera dove si dice dei grandi personaggi che fanno, epoca dopo epoca, la forma di un paese o una teoria del tempo: i personaggi di Kafka, di Brock, di Hašek, di Musil e Mann e Fuentes.

Nelle grandi topografie del romanzo novecentesco, nel romanzo come teoria, le donne sfuggono sempre, anche le più grandi, le più famose. Non fanno teoria, occorre per forza che facciano teoria di genere, se e quando la teoria di genere se ne occupa.

E dunque non dovrei stupirmi che l’opera sperimentale, immane, complessa e libera di Marosia sia non solo poco conosciuta ma quasi introvabile e ignorata e che persino la sua scomparsa, nel novembre 2019, sia passata del tutto sotto silenzio, senza che nessuna delle persone, che pure l’avevano incontrata e apprezzata, a volte sostenuta, muovessero un dito, dicessero una parola o fossero informate dell’accaduto.

Sì, c’è un mistero nel nostro destino, c’è un silenzio che nessuno vuole esplorare, a volte nel timore di riconoscervisi. Ci sono, in ogni epoca, voci autoriali strombazzate e celebrate e voci quasi del tutto silenziate.

Ma c’è nella nota di Kundera una frase di Carlos Fuentes che d’improvviso mi sembra adatta alla teoria di donne, la càrola, la parabola delle cieche e delle veggenti, che Marosia ha descritto pagina dopo pagina, romanzo dopo romanzo, mescolando prosa, biografia e invenzione, trasfigurandosi continuamente, trascendendosi continuamente con la consunzione di sé e del proprio corpo che anche la malattia comportava.

Scrive Fuentes: “Ci vogliono molte vite per fare una sola persona”.

E che tutti i libri di Marosia Castaldi, e tutte le sue opere pittoriche e visive, cercassero disperatamente di comporre quel che forse per gli uomini è più facile ricomporre, grazie a maschere autorizzate e scelte (mentre per le donne ogni ruolo è l’eredità di una schiavitù, di una servitù data per scontata), mi appare ora ancor più evidente.

Temi, parole, immagini tornano ossessivamente nella sua scrittura, che è corpo e compulsione, che è spesso frenesia (quel disordine così poco apollineo che sfugge ai lettori maschi, che spaventa anche i lettori di una scrittrice non meno sperimentale e geniale come Clarice Lispector) ma non assenza di disciplina.

Forse, ripetendo un paesaggio, una memoria, un luogo, sottraendo il cibo e sottraendo il corpo, Marosia Castaldi ha cercato di dar spazio alla sua opera, un’opera potente, ne restassero anche solo frammenti, come per i lirici greci.

Mia suocera, che è stata insegnante di filosofia di Marosia, un’insegnante molto amata, la ricorda giovane come una “ragazzona con una lunga treccia”, intelligente, brillante, mobile. Si sono reincontrate, milioni di anni dopo, in una delle lezioni che organizzo, ruoli invertiti, Marosia che insegnava e mia suocera allieva, ascoltatrice.

Avremmo tutti dovuto fare e dire di più per Marosia Castaldi: confesso, dopo averla invitata diverse volte a tenere lezione per Lalineascritta, di aver avuto paura a farla viaggiare per la delicatezza della sua condizione e di aver rimandato, anche se lei mi chiedeva di tornare.

Mi aveva scritto una lettera bellissima in occasione dell’uscita, seguita da polemiche, di un mio libro dedicato alle difficoltà di far cultura a Napoli (ma in Italia, ormai), quelle difficoltà che lamentiamo invano, che me l’aveva fatta sentire subito vicina.

Sospetto che ognuno di noi, che ha conosciuto e magari frequentato Marosia, sappia comunque poco o troppo poco di lei: il rigore della sua arte, la precisione geniale delle sue lezioni, lo sguardo aperto ed eclettico che ha mantenuto in ogni sua produzione meritano studi e riscoperta.

Per paradosso, come spesso capita, della letteratura delle donne italiane contemporanee si stanno occupando le università estere più delle nostre.

Uno studio più sistematico del corpus degli scritti di Marosia, una produzione trentennale iniziata con Abbastanza prossimo nel 1986, proseguita con Casa idiota (1990), La montagna (1991), Piccoli paesaggi, che pubblicò nel 1993 proprio Anterem, che oggi così gentilmente mi sollecita ed ospita questo breve ragionamento, continuata con Ritratto di Dora (1994), Fermata km 501(1997), approdata e all’editore Feltrinelli nel 1999 con Per quante vite, Che chiamiamo anima, Dava fine alla tremenda notte e Dentro le mie mani le tue (Tetralogia di Nightwater) e negli ultimi anni seguita dalla cura attenta di Agnese Manni che ne ha stampato La fame delle donne (2012), cui si aggiungono altri titoli, da Il dio dei corpi (2006) all’opera teatrale Calco (2008), In mare aperto (2001) e ai saggi dedicati alla punteggiatura pubblicati da Holden, è attesa e auspicata.

“…ero divisa tra realtà e finzione, tra ciò che si vede e ciò che non si vede”, scrive ne Il dio dei corpi, struggente controromanzo di un ricovero.

Ai lettori ora l’occasione di entrare, perché poesia, pittura, romanzo, immagine e parola hanno agito tramite Marosia Castaldi facendone un’allieva estroversa e indipendente di Virginia Woolf in Italia, tracciando una scia nuova, libera e potente.

Del tutto esterna alle piatte logiche del mercato.