Maria Grazia Calandrone, da “Il bene morale”, Crocetti, 2017, nota di Rosa Pierno

Un ago che serra i bordi di cose distanti come il “cuore molto bianco che in realtà rimanda alla nostra mente” lavora alacremente nei testi poetici di Maria Grazia Calandrone per ricondurre ciò che è sparso disordinatamente in un medesimo insieme. L’unione è nel cuore delle cose, ecco dunque che bisogna cercare l’essenza di ogni oggetto naturale per trapassare, tramite analogia, al corpo umano e in tal modo inserirlo - non più dunque visto come corpo estraneo alla natura - nel ritmo pulsante di un onnicomprensivo elemento. La ruggine diviene “scia emorragica”, “l’arancione” diviene sole, alla ricerca dell’unità perduta. Per tale via il corpo stesso diviene altro, si fa ombra, “un minerale bianco” o, ancora, “superficie”. La Calandrone cerca dovunque l’unità, anche nei forni crematori, a Fukushima, a L’Aquila: cerca ovunque vi sia dolore, poiché l’unità non ne viene distrutta, ma anzi insegna a reclamare ancora più fortemente il bene.


 

Le metafore dell’amor perduto

 

Io avevo solo detto: tagliami i rovi e quello mi ha buttato davanti alla casa tutti quei tronchi decapitati, una scena di muscoli combusti, l’ossario nero e contorto dell’abbandono. Ma ogni volta tutto il mondo va a capo dopo la morte, è cosí che succede.


 

1. Frutti dell’abbandono

 

Questo è il mio corpo

un minerale bianco

illuminato – vera

misericordia della materia

accesa come un cero

che ricorda soltanto la tua bocca.
 

Questa è la luce cieca del frutto

una esalazione di particelle

indispensabili alle sequenze di sole

su ovari bianchi.
 

La materia celeste della scomparsa

tra i fiori del giardino.

Qui tutto è colmo di benevolenza e le turbine

ronzano a mezzacosta.
 

Questa è la vigna delle mie ossa

la colonna che torna

alla calma iniziale,

ma uno sguardo

non ha ancora la pace della maceria,

nell’oggetto qualcosa si apre: un filo

di silenzio, una passione, l’ultima

esitazione.


 

L’idiozia o lo splendore della bellezza

 

Adesso credo necessario un ottuso atto di fiducia nella bellezza. Agire come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi. Come se non avessimo visto i nostri cari morire. Agire come se fosse la prima volta. Con la stessa innocenza di Cristo. Con la medesima mortalità elettiva. Abbandoniamo tutta la speranza e tutta la sapienza come il Cristo di Hans Holbein – radice appunto immaginaria de L’idiota dostoevskiano – che nemmeno ha interesse a risorgere, che non ha piú interesse a essere divino. Che non ha piú interesse. Ma che, compiuto il dovere di riaprire una strada a suo modo esemplare tra i rovi del mondo, abbandona se stesso – non il suo corpo: se stesso – alla manomissione che una morte completamente umana farà della sua carne. Diventiamo la bellezza perfetta del dio morto, perché solo la fine è infinita e su di essa sola la bellezza si accampa. Assumiamo la bellezza campale del dio morto. Ovvero del perfetto idiota dostoevskiano, che non ha piú la ferita e la nostalgia del risorto di Rilke per l’esperienza regale della finitudine che, nonostante tutto, costruisce imperi di parole. L’idiota agisce come agirà il Cavaliere di Hughes. Egli è il suo stendardo e di quello stracci. Essere stracci della propria gloria. Essere coscienziosamente carne. Carne mortale. Niente. Dante che sviene continuamente. Mostrare la bellezza di una fine che non scavalca e non trascende se stessa. Carne fatta serena come pietra. Carne completa. L’idiozia della pietra e dell’osso, l’idiozia della cosa, ovvero la piú acuta tra le intelligenze, la piú radicale bellezza e la bontà piú radiante, la bontà idiota che Dostoevskij definiva appunto attraverso la parola prekrasnyj, a dire “lo splendore della bellezza”.

luglio 2011
 


Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964) vive a Roma. Poe- tessa, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice per RaiRadio3, scrive per “Corriere della Sera” e cura una rubrica di inediti per il mensile internazionale “Poesia”. Tiene labora- tori di poesia in scuole, carceri, DSM, con i migranti e presta servizio volontario nella scuola di lettura per ragazzi “Piccoli Maestri”. Libri: La scimmia randagia (Crocetti 2003, premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier 2005), La macchina responsabile (Crocetti 2007), Sul- la bocca di tutti (Crocetti 2010, premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle 2010), L’infinito mélo, pseudoromanzo con Vivavox, cd di sue letture (sossella 2011), La vita chiara (transeuropa 2011), Serie fossile (Crocetti 2015, premi Marazza e Tassoni, rosa Viareggio), Per voce sola (ChiPiúNeArt 2016), raccolta di monologhi teatrali, disegni e fotografie, con cd allegato di Sonia Bergamasco e Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?” (pordenonelegge 2016, premio Dessì); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012). Dal 2009 porta in scena in Europa il videoconcerto Senza bagaglio. Nel 2012 vince il premio “Haiku in Italia” dell’Istituto Giapponese di Cultura e nel 2017 è nel docufilm di Donatella Baglivo “Il futuro in una poesia” e nel progetto “Poems With a View” del regista israeliano Omri Lior. Ha collaborato con Rai Letteratura e Cult Book. Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di nu- merosi Paesi. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it.