Alessandro Mazzi, prosa inedita “Il mito del nostro tempo”, premessa di Davide Campi

Alessandro Mazzi costruisce questo testo come si costruisce un atlante del pensiero. C’è tutto: filosofia, poesia, pittura, psicanalisi. È in realtà una sorta di flusso ininterrotto di conoscenza, fatto di citazioni, rimandi, brevi sintesi teoriche, a volte organizzato con momenti di pura letteratura, spesso con il tono dell’esortazione, pensato in crescendo.

Abbiamo di fronte un testo prosastico scritto con l’esattezza linguistica del poeta, che si configura come un vastissimo orizzonte di senso ricco di reperti: un’area monumentale.

 

Il mito del nostro Tempo

 

Logos e mythos sono i due movimenti che Platone ha scisso all’alba della filosofia occidentale, condannando il discorso e il poetico a impegnarsi nella riconciliazione. Se la filosofia è «un farsi più divino da parte dell’uomo, una tensione oltre di sé», va riunita al mitico in una filosofia della sensibilità, così sente Susanna Mati.

Portare fuori le immagini poetiche, le nostre immagini, che nel profeta sono anche immagini del Tempo, senza bruciarle al Sole, è possibile? Certo, se ci facciamo ombra con le palme raccolte all’oasi vicina, perché se anche Nietzsche ammoniva nel suo Zarathustra «Il deserto cresce: guai a colui che cela deserti dentro di sé!», non è detto che invece proprio nella massima aridità non possa sgorgare il petalo più sacro.

Il pensiero e la poesia si incontrano, due fiumi che come il Tigri e l’Eufrate nutrono la Mezzaluna fertile dell’umanità, generano la nostra comprensione in una ierogamia filomitica. Così nasce un uomo nuovo, più consapevole, più vasto, e con lui nasce una nuova civiltà. Viviamo il mythos così come vuole essere vissuto. Ricorda Cvetaeva che il poeta non crea, ma dà ascolto a qualcosa che in lui indica e ordina.

Come specie simbolica, Animal Symbolicum ci definì Cassirer, è passata fin troppa acqua sotto i ponti per ignorare la capacità psicopoietica del mythos di essere Storia. La nostra epoca vuole consapevolezza. Chiediamoci allora, qual è il mito del nostro Tempo?

Veniamo incontro alla sophia, ricorda Mati, il femminino universale che ci bagna. Porgiamole l’orecchio bisognoso, come Odino che si reca dalla veggente per conoscere gli eventi che verranno, per esserne educati, da educěre, trarre fuori e allevare le immagini dalla tenebra inconscia, a noi affidate come novelli Mosé. Raffiniamo con arte di maniscalco il materiale sorto, dando voce al pensiero poetante.

Dirigendosi verso il ‘900, questo secolo bifronte, Aivazovsky dipinge i suoi mari tempestosi. Sono quadri abissali nel senso più puro del termine, perché attingono allo spirito orizzontale del Moderno, pongono l’uomo di fronte all’imminente cataclisma di fine secolo. In La nona onda del 1850, sei naufraghi chiedono asilo alle onde pur sapendo che ne verranno travolti, mentre il Sole è sospeso in un tramonto albeggiante.

Nel Nietzsche della Gaia Scienza abbiamo bisogno di farci Noè improvvisati e costruire navi che permettano di imbarcarci ed esser-ci (gegangen) in un mondo in diluvio, mentre salpiamo per nuove terre (Land) all’inabissarsi di Dio. Come nella visione della barca nel Libro Rosso di Jung, il Dio deve iniziare il suo viaggio nell’aldilà per rinascere rinnovato nel nuovo eone, e noi con Lui.

Scrive Rilke nella prima elegia duinese del 1912 che «L’eterna corrente/ trascina attraverso entrambi i regni ogni età,/ sempre con sé, ed entrambi sovrasta con il suo suono». Possiamo solo approntarci e sperare che la nostra arca regga.

Il poeta Yeats nel 1919 compone La seconda venuta, un poema spartiacque tra le due guerre. Siamo alla fine dei tempi e gli elementi si fanno mostri biblici, «E quale bestia orrenda [...] striscia verso Betlemme per venire al mondo?». Al leontocefalo non si comanda,

e nessuna lancia potrà ucciderlo. Schmitt pure deve ritrovare lo spazio in Terra e Mare, dove irrompono il Leviatano e il Behemoth.

Heidegger cerca la risposta alla mancanza di fondamento (Grund) nei fiumi di Hölderlin, così come il Siddhartha di Hesse impara dal fiume. L’acqua che scorre, la transitorietà (Wanderschaft) che ha nella sua radice il migrare (Wanderung). Nei tempi si entra navigando, come rifugiati che attraversano il Mediterraneo.

In Aion Jung parla dell’uomo con la brocca menzionato nel Vangelo di Luca, l’Acquario. Può essere che in questi interregni per cui si passa da un mese platonico all’altro, ci sia sempre un barlume della prossima era, che riaffiora in questo tempo presente portando con sé una scintilla di ciò che verrà?

Jung esprimeva le sue curiosità sull’Età del Capricorno, che sarebbe succeduta all’Età dell’Acquario. Ma se l’Acquario è un simbolo del Sé che ci chiede la soluzione degli opposti dell’Età dei Pesci, se è lui a rovesciare con le sue brocche d’oro la corrente iperborea che ci sovrasta, che cosa ci chiederà il Capricorno? Interroghiamo la Pizia.

Nel secondo libro della Mitologia Astrale di Igino, troviamo il mito di Tifone, sposo di Echidna, che scatena il panico fra gli dèi; ognuno fuggendo muta in un proprio animale. Questa dispersione degli dèi, il loro assumere una forma diversa di fronte al cataclisma, non è la condizione postmoderna in cui ci troviamo oggi? Non abbiamo vissuto finora l’incapacità della Storia di poter attingere a una grande narrazione, perché impegnati a scappare dal vortice del nichilismo, l’ombra di Dio che genera disastri?

Hillmann considerava Pan l’origine del panico. Cumont nel suo Zodiaco dice che nella fuga da Tifone i Greci trasformarono il dio Pan nel segno del Capricorno, creatura duplice e una. Forse le correnti transumaniste, l’euforia di creare esseri cibernetici, il rapporto uomo-robot-intelligenza artificiale, la necessità di nuove ontologie sfumate, non sono sprazzi del Capricorno?

Difficile dirlo. Nessun oracolo pre-cristiano avrebbe potuto predire che l’Età dei Pesci avrebbe generato la Chiesa cattolica, o che l’Apocalisse si sarebbe consumata nei campi di concentramento. De Santillana, nel Mulino di Amleto, ricorda la veggenza del poeta antico. Ma andare troppo a fondo ha un costo, come Odino che sacrifica un occhio alla fonte di Mímir. La virtù del poeta è saper riconoscere i limiti della propria visione.

Seguiamo la ninfa, ma attenzione! Il confine dell’uomo è un’arcata di pietra, oltre la quale si staglia l’indefinito. Metaxis, intimava Diotima nel Simposio di Platone, che significa avere il coraggio di stare nel mezzo! Hölderlin e Nietzsche hanno pagato caro il prezzo degli intuitivi introversi. Il divino pugnala le teste d’oro e smuove le viscere in forti spasmi.

Possiamo solo dire che il monte capricornino ci chiama, e che dobbiamo scalarlo. È il tempo dell’approdo.


Alessandro Mazzi nasce a Pompei il 17 Aprile 1990. Si laurea in Estetica all’Università “L’Orientale” di Napoli con una tesi originale su Hölderlin e il Taoismo, sotto la supervisione del prof. Giampiero Moretti. Dopo un periodo in Islanda, continua lo studio della filosofia e delle scienze pure all’Università di Urbino, dove è attualmente laureando. Collabora con diverse testate online, tra cui La Tigre di Carta e L’Indiscreto, e tiene seminari filosofici all’università.