Stefano Guglielmin, La distanza immedicata

Carsica o in piena luce, la poesia, come un fiume, è scorrere continuo e nascita costante. Nella costruzione di questo nuovo libro, come è possibile cogliere sin dai titoli delle sezioni, Stefano Guglielmin ha impiegato come struttura prevalente nomi di fiumi altamente simbolici. Tra echi di letteratura, memoria, vita e morte. Come osserva Giovanna Frene in prefazione, “il fiume, pur non ergendosi come un muro, separa di fatto una riva dall’altra. E attorno al concetto di movimento, cioè di caduta e separazione, si impernia il libro”.

Poesia era l’enorme/ vuoto, (…) quel brulichio dal fondo/ che saliva,” sono i versi che aprono questo volume e aprono subito una riflessione, parlano di una corrispondenza. L’identificazione della poesia con il vuoto ci fa presagire tutto il possibile del vuoto, del nulla. Queste due figure rappresentano quello che nel pensiero comune viene taciuto e proprio per questo entrano con forza nella poesia e ne costituiscono elementi fondanti. “se reclami l’opera e l’intero/ se scrivi a caso o spiovi/ fino alla pozza o al buio/ se incidi ed espelli se sei terra” ci racconta il possibile della poesia quando ha già tradotto il vuoto in versi. Allo stesso modo ci si può calare negli abissi di una storia e nel contempo, in questo movimento a scendere, potenza della poesia, trovarsi a guardare avanti: “per noi/ che caliamo a picco nella stessa storia/ saldi al ramo che butta senza pensiero/ senza paura”. Il poeta non “cola” a picco come avviene nelle cronache dei naufragi, ma “cala” a picco, essendo in questa discesa attivo. Vivendo senza protezioni non ha paura di entrare nel fondo scuro che alberga in ciascuno di noi. Tutto questo accade nei versi di Guglielmin e solo in una poesia che non sia mimetica del falso reale che ci circonda. Nel nostro immaginario i versi hanno l’insostituibile funzione di ricreare il mondo, dal momento che “nel mondo spiegato e interpretato noi non siamo di casa”, come ci ha detto Rilke. E nella poesia, come nei fiumi letterari, può succedere allora di trovare “così sull’acqua/ il sughero o la fanciulla morta o la bella che nuota/ che va/ su ogni cosa che resta”.

Con la sezione “Ouse”, dal nome del fiume in cui si suicidò Virginia Woolf, si entra nel registro di una prosa poetica in cui la capacità di scrittura offre un ritmo franto e insieme fluente, che rende in tutta la sua emozione l’esito del gesto di allora. Con un tono quasi carezzevole, che racconta in una brevissima profondità una fine vista nello stesso tempo da dentro e da fuori, da allora e da oggi. Una poesia vicina alla ferita. “non pensavo a tanto. a tanta cosa che lascia qui e soli. (…) non pensava a tanto. e non per sempre. solo chiudere un libro, aprirne un altro”. Nello stesso brano parlano entrambi, la narratrice e il poeta, uniti dalla simmetrica costruzione del testo. Lo scarto, minimo e di enorme senso, avviene nel passaggio tra la prima e la terza persona.

la casa. le stanze. tu che nelle stanze cerchi casa”. Quante volte è stato così, prima di una fine? Quante volte non è stato possibile medicare la distanza tra sé e il resto? Il punto di contatto più vicino è l’approdo di tutti i fiumi. Che non è foce ma riva, è “la riva dei nomi” e naturalmente del libro: “ecco mettiti qui, a lato del libro, e scendi/ se puoi, là dove s’increspa la gioia”.

Stefano Guglielmin, La distanza immedicata, Le Voci della Luna, Sasso Marconi (Bo) 2006, edizione bilingue con traduzioni in inglese a cura di Gray Sutherland