Prima pagina, Francesca Marica: Franco Beltrametti, Uno di quella gente condor; collage dedicato

Uno di quella gente condor – vita e opere di uno degli ultimi irregolari e clandestini della letteratura; collage dedicato

Cinquantotto anni sono pochi, pochissimi, sono un tempo infinitamente piccolo per chi la vita l’ha divorata, sfidata, presa a morsi, celebrata e onorata. Per chi la vita, in una parola sola, l’ha vissuta. I (quasi) cinquantotto anni di Beltrametti sono stati pochi, disgraziatamente pochi, ma anche straordinariamente densi, travolgenti, abitati da molti amici e molte presenze. Come racconteranno negli interventi successivi le persone che lo hanno conosciuto, che gli sono state amiche e che ne hanno curato le opere, Franco è stato una persona generosamente e autenticamente interessata all’incontro con gli altri; una persona viva, curiosa, che non si è mai risparmiata in nulla e il suo tempo lo ha speso intensamente fino all’ultimo dei suoi giorni.

Franco Beltrametti nasce a Locarno il 7 ottobre del 1937 e muore a Lugano il 26 agosto del 1995, improvvisamente e in piena attività.

L’esordio poetico risale al 1970. La plaquette, pubblicata dalle edizioni GEIGER di Adriano Spatola e fratelli, ha un titolo curioso: Uno di quella gente condor.

Lì vengono raccolti testi scritti tra il 1965 e il 1968 e legati quasi interamente alla sua prima esperienza in Giappone e California. Il titolo gli viene suggerito dallo stesso Spatola durante uno dei loro primi incontri a Roma e nasce dai versi finali della poesia Un uccello? Un’aquila?

In quella plaquette, dall’aspetto sobrio e minimale, sono già rintracciabili tutti gli elementi che diventeranno fondamentali nella poetica beltramettiana: l’immediatezza e l’essenzialità dei versi, la sperimentazione di un linguaggio nuovo, il sacrificio dell’io poetico in favore degli oggetti della realtà, il suo continuo interrogarsi sul rapporto tra incompiuto e immediato.

Il poeta Nelo Risi in una lettera indirizzata a Beltrametti all’indomani della pubblicazione scriveva: Vedo che anche lei appartiene (come Cid Corman) a quella razza di poeti girovaghi che sembra aver preso l’avvio da Allen Ginsberg. Il suo CONDOR vola alto, secco e tagliente, o casca giù dal cielo come una pietra. Davvero lei è riuscito a prosciugarsi in così poco tempo (3 anni!) tra Kyoto e Los Pedres National Forest? E prima, come scriveva prima? Pound e Cummings c’entrano nella sua formazione?

A quella lettera, in cui scorge una profonda comprensione del suo modo di intendere la vita e la poesia, Beltrametti risponderà poco tempo dopo proprio con una poesia, la numero 24 del suo libro successivo Un altro terremoto: “Il suo condor vola alto/secco e tagliente o casca giù/ dal cielo come una pietra”. ecco proprio come/pensavo dovesse essere/ gli rispondo contento/ quando tira vento/ mi aspetto di vedere/ il tetto della baracca/ volare via (29.07.1970).

Ecco proprio come pensavo dovesse essere. Il risparmio e l’immediatezza verbale che caratterizzano l’esordio di Beltrametti (frutto anche della sua ammirazione per le forme poetiche orientali) e il suo genuino interesse per il processo creativo più che per la finalizzazione dell’esperienza creativa secondo la celebre formula beat First Try, Best Try (nel 1990, in un’intervista ad Antonio Ria, Beltrametti dirà che il risultato è solo una messa a fuoco delle tracce) caratterizzano anche le plaquette degli anni a seguire. Beltrametti è stato un poeta prolifico; si contano oltre sue cinquanta pubblicazioni.

Tra i suoi lavori più noti: Un altro terremoto nel 1971 dedicato ai compagni del Belice (edizioni GEIGER); In transito nel 1976 (sempre, GEIGER), allora: poesie 1977-1981 (GEIGER, 1981), 1984 – 15 poesie x Irene Aebi & Steve Lacy, nel 1984 (TAM TAM), 19 permutazioni nel 1986 (Edizioni Inedite/Milano), Tutto questo nel 1990 (Supernova), Monte Generoso nel 1991 (Josef Weiss & Ascona Presse), Dossier Villon con Corrado Costa nel 1991 (Elytra), Trattato nanetto nel 1992 (Supernova), Codice Biancaneve con Dario Villa nel 1992 (Scorribanda&Edizioni Nanette), KTCFYW con Tom Raworth nel 1992 (Scorribanda & Infolio), Poesia diretta con Antonio Ria nel 1992 (Edizioni Mazzotta), Logiche & illogiche nel 1994 (Giona Editions), Perché A nel 1995 (Supernova), Choses qui voyagent nel 1995 (Edizioni Mazzotta).

Ma la poesia non esaurisce la produzione artistica di Beltrametti. Accanto al Beltrametti poeta hanno convissuto, con identica forza, impegno e rigore, il Beltrametti saggista (Belice: lo stato fuorilegge, 1969), lo scrittore in prosa (Nadamas, 1971, GEIGER e Quarantuno, 1977, Cooperativa Scrittori), l’artista visivo e il collagista (numerose sono state le sue personali, soprattutto in Francia, Italia e Svizzera; il segno grafico e il dato figurativo sono stati elementi sempre complementari alla parola; talvolta è stata la stessa parola a farsi segno grafico), l’editore e il redattore di riviste di poesia (Abacadabra e Mini – la rivista più piccola del mondo, nata da un suggerimento del figlio Giona), il curatore di antologie (Montagna Rossa nel 1971 realizzata con la moglie Judy Danciger e C/O nel 1984 dedicata interamente alla poesia visuale, realizzata in collaborazione con la poetessa e amica Patrizia Vicinelli), il traduttore (sono sue molte delle traduzioni degli amici beat americani, per esempio), il performer e l’organizzatore di festival di poesia (P77, la cui prima edizione ha luogo a Venezia nel 1977, assumendo negli anni successivi una vocazione internazionale) e, non da ultimo, il collaboratore di numerose riviste indipendenti e underground, tra cui  TAM-TAM  (poesia/Italia), Anterem (poesia/Italia), Cervo Volante (poesia/Italia), HOTCHA! (poesia/Svizzera), Coyote's Journal (poesia/USA).

Come ha ricordato l’amico Dario Villa su Il Manifesto all’indomani della sua morte, Beltrametti ha inseguito sempre la poetica del frammento, partendo da una posizione di centralità della marginalità e con lui se ne è andato uno degli ultimi rappresentanti di una generazione di irregolari e clandestini della letteratura.

Uno degli ultimi irregolari e clandestini, verissimo. Tutta la sua vita e la sua produzione artistica sono state una testimonianza concreta della sua vocazione di irregolare e clandestino e anche le sue scelte editoriali non potevano che confermare quella vocazione: Beltrametti ha sempre prediletto i piccoli editori indipendenti e tutta la sua opera letteraria è composta da plaquette a tiratura limitata e da uno svariato numero di pubblicazioni in rivista dove si è mantenuta sempre alta e costante l’attenzione all’attimo, alla velocità di esecuzione e stesura del testo, all’economia delle parole. Come ha scritto Niccolò Scaffai nel 2005, Beltrametti sembra andare incontro una nuova concezione della poesia, lontana dalla logica del libro di poesia (così in Il poeta e il suo libro. Retorica e storia del libro di poesia del Novecento, Le Monnier).

Della scrittura Beltrametti ha sempre avuto un’idea precisa. Nel volumetto Autobiografia in 10.000 parole (uscito nel 1991 per la Contemporary Authors Autobiography Series, CAAS, vol. 13 e, in Italia postumo, per le edizioni sottoscala nel 2016) annotava: Scrivere vuol dire scrivere della scrittura che chi scrive sta scrivendo. Vuol dire anche registrare una voce. E poco dopo, citando una sua poesia del 1969, aggiungeva: there is not much to understand/ just pay attention.

Quale fosse il suo pensiero appare evidente: scrivere vuole dire vivere il tempo presente, c’è da prestare attenzione, occorre essere vigili e mettersi in ascolto di una voce. Recuperando il pensiero di Ernest Fenollosa (sinologo americano della fine del XIX secolo, fondamentale nella sua formazione), Beltrametti ritiene che la poesia debba tradursi in un assemblaggio di immagini, estranee al filtro della logica, deve essere una fede assoluta nei confronti degli oggetti della realtà.

Già nel 1973, in un suo intervento su TAM TAM (numero 3/4, primo semestre, poi riportato anche nella rivista Allora, Quaderni della Fondazione Franco Beltrametti, n. 3 del 2003, a cura di Anna Ruchat) Beltrametti rivendicava per sé una poesia capace di sfuggire alle regole fisse e vedeva nella crudezza dei fatti la sola realtà realizzabile: Ogni poesia è per me un viaggio mentale (o sciamanico) che si può percorrere e ripercorrere. Le parole sono casse di risonanza, percezioni, tracce, suoni. Le parole e le frasi hanno ossa carne pelle tendini nervi. Un’intelligenza interna, quasi biologica (…).

Ma la definizione più interessante e completa di poesia la si rinviene in Un altro terremoto e siamo nel 1971. La poesia numero 34 della plaquette così recita: La poesia/ (visto che me l’hai chiesto)/ è una specie/ di filosofia d’azione/ cioè/ telegrammatica. In quella definizione c’è lo slancio vitale di Bergson, c’è il pensiero di Nietzsche ma anche l’amore di Beltrametti per la filosofia orientale, il Taoismo e il Buddhismo zen. Fare poesia per lui significa indagare la realtà senza filtri, senza strutture estetizzanti; come lui stesso dirà in uno dei suoi taccuini (oggi custoditi, insieme alla quasi totalità della sua produzione letteraria, a Berna, presso l’Archivio Svizzero di Letteratura) la mia poesia è una sintesi di situazioni molto contingenti e limitate-localizzate, compresse “dentro” con la speranza di riuscire a “comprimere dentro” sempre di più, un concentrato di parlato e di pensato. L’unico modo in cui sono capace di fare poesia è questo.

Come altri hanno già avuto modo di far osservare, e penso soprattutto a Dario Villa, Giulia Niccolai e Maurizio Spatola, in Beltrametti vita e poesia hanno coinciso, finendo per diventare una cosa sola. La sua poesia è stata, di fatto, il diario particolareggiato della sua vita. Giulia Niccolai, nell’introduzione italiana a Autobiografia in 10.000 parole, ha scritto che la sua poesia era una sorta di diario di bordo, una lunga serie di appunti su pensieri, immagini, amici, situazioni di una vita che Franco aveva deciso: sarebbe stata bella e libera.

Bella e libera, e sempre in movimento. Sì, perché per Beltrametti il viaggio ha sempre rivestito un ruolo fondamentale. Antonio Porta nel 1979, in Poesia degli anni Settanta, scriveva Le tematiche del poeta-viaggiatore (e il viaggio ha qui tutti i suoi significati possibili, dalla droga fino alla morte) ci vengono illustrate con eleganza paradossale da Franco Beltrametti. Dico "paradossale" nel senso in cui lo è ogni scelta stilistica di fronte a temi così radicali. I graffiti di Beltrametti resistono proprio per la loro provvisorietà, per il negarsi ogni carico troppo pesante. Ciò che rimane è il senso di una fuga senza fine dall'idea di una morte innaturale, quella fornitaci dalla nostra cultura. All'orizzonte, irraggiungibile, "il lampo verde dell'alba".

Beltrametti inizia a viaggiare dopo la laurea in architettura a Zurigo, approdando in un primo tempo a Parigi e a Londra dove lavora in uno studio di architetti. Insoddisfatto della libera professione, decide di muoversi alla volta del Giappone nel 1965 (quel viaggio di cui esistono diversi taccuini, viene raccontato anche in Transiberiano, edizioni sottoscala, 2016 a cura di Anna Ruchat e Stefano Stoja). Vive per diverso tempo a Kyoto e lì, nell’ottobre del 1966, nascerà Giona, il suo primo figlio.

Tramite Nanao Sakaki, padre del movimento alternativo giapponese e poeta girovago, conoscerà in quegli anni Gary Snyder, Philip Whalen e Cid Corman e con loro instaurerà un’amicizia lunga un’intera vita. Dal Giappone, si trasferirà in California dove insegnerà all’università di San Luis Obispo, siamo nel 1967. Ad accogliere lui, la moglie e il figlio ancora piccolissimo, al porto di San Francisco, ci sarà il poeta e l’editore James Koller che diventerà nel tempo un altro dei suoi più cari amici.

Molti altri incontri con poeti e artisti verranno e si consolideranno negli anni successivi: Allen Ginsberg, Lew Welch, Michael McClure, Duncan McNaughton, Joanne Kyger, William Burroughs, Urban Gwerder, Ted Berrigan, Annabel Levitt Lee, Julius Bissier, Jack Boyce, John Giorno, Tom Raworth e Julien Blaine.

Dopo la California, tornerà in Svizzera e poi in Italia (stabilendosi per un periodo a Roma, Venezia e Milano). Nel 1969, raggiunge Partanna, città distrutta dal terremoto del Belice e lì vivrà, insieme alla moglie Judy e al figlio Giona, per un anno tra la popolazione locale cercando di dare un aiuto fattivo per la ricostruzione. Quell’esperienza confluirà, non senza amarezze, nella plaquette Un altro terremoto e nel saggio Belice: lo stato fuorilegge.

Nel 1971, su invito della cara amica di gioventù Flora Ruchat, si trasferisce a Riva San Vitale. Farà di Riva San Vitale, sede della Fondazione che porta il suo nome, il suo feudo, uno dei suoi luoghi-approdo. Lì lo raggiungeranno a più riprese gli amici americani, francesi e svizzeri ma anche quelli italiani, Adriano Spatola, Giulia Niccolai, Corrado Costa, Dario Villa con cui nel frattempo continueranno diverse collaborazioni. Negli anni successivi si muoverà incessantemente tra Europa (Francia soprattutto) e Stati Uniti abbracciando molti progetti artistici, si interesserà di poesia performativa e reading e organizzerà lui stesso un festival di poesia, la cui prima edizione, P77, si svolgerà a Venezia proprio nel 1977 ai Saloni del Sale (festival da cui si defilerà dopo qualche anno non riconoscendosi più nello spirito e nel progetto da cui tutto aveva avuto inizio).

Solo nel 1986 riuscirà a fare ritorno a Kyoto per l’inaugurazione di una mostra, a distanza di vent’anni dal suo primo viaggio in Giappone.

Negli anni ‘90, ai vecchi progetti se ne aggiungeranno di nuovi, soprattutto in campo artistico (del 1993, l’esposizione alla Gallerie 22 di Marsiglia e a Bellinzona da Attila Centro d’Arte Contemporanea; del 1994 invece l’esposizione a Locarno delle collaborazioni 1984/1994 con Tom Raworth).

In quegli anni incontrerà anche la ceramista Antonella Tomaino, che diventerà sua compagna e con la quale vivrà una ritrovata serenità. Dalla loro unione nascerà, pochi mesi dopo la prematura scomparsa di Beltrametti, Franca – la sua seconda figlia.

Tutto nella vita di Franco Beltrametti sembra essere stato guidato e graziato dal caso. Forse perché lui per primo aveva raccontato di credere al caso (così come lo intendevano John Cage e Duchamp) e continuava a sorprendersi davanti all’intrecciarsi dei fili della vita. La tragedia, la passione, la confusione, la disperazione, anch’esse fanno parte del tutto, parte del mio essere ancora qui – scriverà in Autobiografia in 10.000 parole. E sono convinta che continuerebbe a scriverlo anche oggi, con lo stesso identico fervore ed entusiasmo.

La vita negli anni ‘80 non è stata un viaggio su un petalo di rosa, scriverà sempre in Autobiografia ma, probabilmente, è stato il migliore tra quelli possibili.

Quello con cui ci congediamo, tenendoci stretta la sua costellazione di sogni e ideali sempre vivi.

Francesca Marica, Niente da (in memoria di Franco Beltrametti), collage, tecnica mista su cartone, 2020

 

Francesca Marica è nata a Torino nel 1981.

 

Ha pubblicato: Concordanze e approssimazioni (Il Leggio 2019, segnalazione Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano, XXXIII edizione).

Sta lavorando a due nuovi progetti poetici e a un libro d’artista a quattro mani con una scultrice italiana. 

 

Redattrice e curatrice di riviste e blog letterari, si occupa di critica poetica e poesia visiva. È anche artista visiva e collagista. Traduce dall’inglese e dallo spagnolo, ha scritto - e scrive - di arte e di teatro. Sue poesie sono apparse su diversi blog, riviste e antologie.

 

Fa parte della Giuria del Premio letterario Internazionale Franco Fortini e del Premio nazionale Gianmario Lucini.

 

Vive a Milano, dove esercita la professione di avvocato.